La correlazione del costo all’attività imprenditoriale nel suo complesso e non ai singoli ricavi è sufficiente ai fini della deducibilità
La recente giurisprudenza tributaria, sia di merito che di legittimità, ha ormai in diverse pronunce chiarito alcuni rilevanti aspetti in tema di inerenza dei costi e recupero a tassazione di spese di sponsorizzazione, evidenziando come sia sufficiente, ai fini della deducibilità, la correlazione del costo all’attività imprenditoriale nel suo complesso (tenuto conto dell’oggetto dell’impresa) e non ai singoli ricavi.
Oggi riprendiamo un caso datato ma sempre attuale, trattato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza numero 6368/2021.
Nel caso di specie, la società contribuente, operante nel settore del pellame, aveva impugnato un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA, relativo ai periodi di imposta 2010 e 2011, con cui erano stati recuperati a tassazione costi per spese di sponsorizzazione indebitamente dedotti in quanto ritenuti non inerenti.
La Commissione Tributaria Provinciale aveva rigettato il ricorso, con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale.
Il giudice di appello aveva in particolare ritenuto che i costi per sponsorizzazione non fossero inerenti, in quanto incongrui rispetto all’attività sponsorizzata, trattandosi di sponsorizzazione di auto di gran turismo.
La Commissione Tributaria Regionale aveva inoltre ritenuto che la genericità degli impegni assunti dallo sponsee in relazione alle prestazioni accessorie (disponibilità dei piloti a incontri, accoglienza, partecipazione agli eventi) e agli spazi dedicati al logo riservato allo sponsor denotassero un’antieconomicità manifesta dei costi sostenuti.
La società contribuente proponeva quindi ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione degli artt. 108 e 109 del Dpr. 22 dicembre 1986, n. 917 e del principio di neutralità dell’IVA, nella parte in cui il giudice di appello aveva ritenuto indeducibili i costi di sponsorizzazione per assenza di certezza in quanto attività antieconomiche.
La ricorrente si richiamava in particolare al recente orientamento di legittimità, secondo cui il principio di inerenza dei costi si ricava dal reddito di impresa, escludendosi ogni valutazione di utilità o di congruità degli stessi, rilevando tali apprezzamenti come meri indici sintomatici dell’insussistenza dell’inerenza.
Deduceva, pertanto, la ricorrente che il giudizio di inerenza andava tratto in relazione alla correlazione tra costo ed attività di impresa, rispetto alla quale l’antieconomicità assume il ruolo di mero elemento sintomatico.
Inerenza e antieconomicità: la decisione della Corte di Cassazione
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.
Evidenziano i giudici di legittimità che, in materia di inerenza dei costi deducibili, l’orientamento più recente della Cassazione afferma che deve rinvenirsi una correlazione del costo non in relazione ai ricavi, bensì in relazione all’attività imprenditoriale nel suo complesso (Cass., Sez. V, 17 gennaio 2020, n. 902), avuto riguardo all’oggetto dell’impresa (Cass., Sez. V, 15 gennaio 2020, n. 559).
La ratio di tale impostazione riposa sulla nozione di reddito d’impresa e non sulla correlazione tra costi e ricavi di cui all’art. 109, comma 5, TUIR, escludendosi dal novero dei costi deducibili solo quelli che si collocano in una sfera estranea all’attività imprenditoriale.
Conseguenza di questa impostazione è quindi, da un lato, che non assume rilevanza, in quanto tale, la congruità o l’utilità del costo rispetto ai ricavi, dovendosi dare un giudizio di inerenza di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., Sez. V, 21 novembre 2019, n. 30366; Cass., Sez. V, 31 ottobre 2018, n. 27786; Cass., Sez. V, 11 gennaio 2018, n. 450), e, dall’altro, che l’antieconomicità del costo (rispetto al ricavo atteso) degrada comunque a mero elemento sintomatico della carenza di inerenza (Cass., Sez. V, 17 luglio 2018, n. 18904).
In conseguenza di tale impostazione, rileva la Corte, sono stati, ad esempio, ritenuti deducibili, in quanto inerenti, costi relativi ad attività di carattere preparatorio (Cass., Sez. V, 3 ottobre 2018, n. 23994), come anche costi strumentali ad attività future e di (solo) potenziale proiezione dell’attività imprenditoriale (Cass., Sez. V, 31 maggio 2018, n. 13882).
Nella specie, pertanto, il giudice di appello, pur dopo avere enunciato astrattamente tale principio, non ne aveva poi fatto corretta applicazione.
Il giudizio di non inerenza era stato infatti tratto sulla base della sproporzione del costo assunto rispetto al potenziale ritorno commerciale offerto dalle manifestazioni sponsorizzate e, quindi, avendo come riferimento la correlazione o corrispondenza tra costi e ricavi e il ritorno dell’investimento, anziché l’estraneità all’attività imprenditoriale della società contribuente.
E anche le osservazioni dell’Ufficio, secondo cui l’esame della CTR aveva evidenziato, da un lato, “l’inadeguatezza del ritorno economico e di immagine rispetto al costo sostenuto”, alla luce delle dimensioni dei loghi applicati sulle vetture e della “atipicità” degli eventi sponsorizzati rispetto all’attività dello sponsor, e, dall’altro, la carenza di documentazione a supporto, con evidenza della sproporzione tra costo e prestazione, elemento questo sintomatico di mancanza di certezza della spesa, ad avviso della Corte, confermavano la fondatezza del motivo di ricorso, laddove la non inerenza veniva appunto indotta dal giudizio di non adeguatezza dei costi sostenuti rispetto al ritorno dell’investimento e non dal giudizio di estraneità rispetto all’attività di impresa.
Il giudice di appello, in conclusione, nell’avere, ai fini della esclusione del giudizio di non inerenza, istituito una correlazione tra costi e ricavi (anziché tra costi ed attività imprenditoriale) e nell’aver fondato su di essa il giudizio di antieconomicità, secondo la Cassazione, non aveva correttamente applicato i suddetti principi.
Inerenza e antieconomicità: alcune osservazioni
I contenuti del principio di inerenza (e il rapporto con il giudizio di congruità ed antieconomicità) sono stati già chiariti dalla Cassazione nella loro conformazione, laddove l’inerenza costituisce un requisito fondamentale per la determinazione del reddito d’impresa e riguarda, in termini generali, l’esistenza di una relazione tra i costi e l’attività d’impresa.
I costi sono dunque inerenti, in quanto siano collegati all’attività d’impresa produttiva del reddito soggetto a tassazione.
Tale nozione non trova, del resto, una esplicita definizione positiva, ancorché, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, possa essere fatta discendere dal vigente art. 109, comma 5, Tuir.
Il quale, però, disciplina un profilo ulteriore e successivo - le regole di deducibilità dei costi - rispetto all’inerenza, che è presupposta (i costi per essere deducibili debbono anche, e necessariamente, essere inerenti), ma non definita dalla norma.
La nozione di inerenza, in sostanza, non è definita, ma “postulata” in relazione ai costi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Tale nozione trae del resto il suo fondamento dallo stesso concetto economico-aziendalistico di reddito, che è quello al netto dei costi collegati all’esercizio dell’impresa.
Ne deriva, quindi, che l’inerenza integra, in realtà, un giudizio sulla riferibilità del costo all’attività d’impresa, giudizio che, come tale, ha natura qualitativa e non quantitativa.
Vero è che il percorso evolutivo di questo concetto ha condotto la stessa Cassazione, in passato, a far riferimento ad una nozione di inerenza, che, pur collegando il costo all’attività d’impresa, richiedeva comunque la suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente o indirettamente, un’utilità all’attività d’impresa (v. Cass. n. 10914 del 27 maggio 2015; Cass. n. 13300 del 26 maggio 2017, nonché, con riguardo al concetto di utilità, Cass. n. 20049 dell’11 agosto 2017), facendo anche assumere rilievo ad una considerazione «quantitativa» dei costi, e potendo l’utilità essere apprezzata tenuto conto del quantum della spesa, con conseguente inclusione nella nozione di inerenza anche dei profili di congruità od (anti)economicità della scelta imprenditoriale.
Da ultimo, però, la Suprema Corte ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all’esercizio dell’attività d’impresa, escludendo ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità “perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo” (cfr., Cass., Ord. n. 450 del 11 gennaio 2018).
Esula quindi, ai fini del giudizio di inerenza, un apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità, parametri che non sono espressione dell’inerenza, ma, semmai
“costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa” (cfr., Cass., Ord., n. 3170 del 09 febbraio 2018)
Il giudizio quantitativo o di congruità, però, non è del tutto irrilevante, collocandosi su un diverso piano logico e strutturale.
La questione, infatti, si intreccia con il profilo dell’onere della prova del costo, che incombe sul contribuente in ordine ai suoi fatti costitutivi.
Il contribuente è tenuto a provare (e documentare) l’imponibile maturato e, dunque, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione.
Ne deriva che è configurabile un nesso tra due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa.
In conclusione, l’impiego del criterio utilitaristico non giova alla corretta esegesi della nozione di inerenza, in quanto il concetto aziendalistico e quello civilistico di spesa non sono necessariamente legati all’elemento dell’utilità, essendo configurabile quale costo anche ciò che, nel singolo caso, non reca utilità all’attività d’impresa.
Bisogna però negare che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo, essendo, al contrario, necessario e incombente sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto della spesa.
Tutta la questione, in sostanza, si sposta sul piano probatorio, laddove l’antieconomicità dell’operazione non comporta automaticamente l’indeducibilità dei costi, ma semplicemente la necessità di una prova più “convincente” in ordine alla deducibilità del componente negativo.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Inerenza e antieconomicità