Bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e responsabilità degli amministratori

Gianfranco Antico - Diritto societario

Bancarotta fraudolenta: ultime novità giurisprudenziali in tema di falso in bilancio e responsabilità degli amministratori

Bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e responsabilità degli amministratori

In quest’ultimo periodo si susseguono le pronunce della Cassazione in tema di bancarotta fraudolenta.

In particolare:

  • con la sentenza n. 4329/2025, la Corte di Cassazione, sezione V, ha affermato che l’amministratore di diritto ancorché «testa di legno» può essere chiamato a rispondere dei reati fallimentari in quanto commessi, anche attraverso omissioni, in concorso con l’amministratore di fatto; tuttavia, l’assunzione solo formale della carica costituisce un importante indizio della configurabilità del dolo richiesto per la sussistenza dei reati addebitati, ma occorre altresì che vengano individuate, rifuggendo da rigidi automatismi probatori, le specifiche ragioni per cui sia possibile ritenere, nei termini suindicati, che l’amministratrice formale abbia consapevolmente concorso nella realizzazione dei reati ad essa addebitati;
  • con la sentenza n. 631/2025, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il falso in bilancio, seguito dal fallimento della società, integra l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario.

La sentenza numero 4329/2025: amministratore di fatto e reati fallimentari

I giudici di merito hanno riconosciuto l’imputata, quale amministratrice formale della società fallita dalla costituzione alla data del fallimento, responsabile, in concorso con il fratello, amministratore di fatto nel medesimo periodo, dei delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale.

Le doglianze - La ricorrente, in Cassazione, ripropone censure già sviluppate in appello sostanzialmente riconducibili all’assenza dell’elemento psicologico dei reati a lei addebitati, rivestendo il ruolo di amministratore di diritto della società fallita solo in via formale.

Deduce di aver operato quale mera testa di legno, all’oscuro degli eventuali disegni criminosi del fratello, che l’aveva individuata quale amministratrice proprio per la sua totale estraneità ai fatti di gestione societaria

La consapevolezza, da parte sua, del depauperamento del patrimonio da parte di altri sarebbe stata dunque affermata dalla Corte sulla base di mere presunzioni e comunque non fondata su obiettivi riscontri.

In tale prospettiva, la ricorrente deduce di non avere mai avuto un ruolo attivo nelle condotte distrattive in quanto, al di là del titolo formale, ella aveva sempre e solo svolto l’attività di operaia, non aveva mai tenuto alcun contatto con istituti bancari, fornitori, clienti e con il commercialista, non aveva mai percepito alcun compenso come amministratrice e non aveva alcuna competenza, né culturale, né professionale, per svolgere l’attività di amministratore

Il ragionamento degli Ermellini

Per gli Ermellini, la censura coglie nel segno.

Ed invero, non vi è dubbio che l’amministratore di diritto ancorché «testa di legno» può essere chiamato a rispondere dei reati fallimentari in quanto commessi, anche attraverso omissioni, in concorso con l’amministratore di fatto.

A norma dell’art. 40, comma secondo, c.p. infatti, «non impedire, un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo» e siffatto obbligo, nella vicenda in esame, scaturisce dal disposto di cui all’art. 2392 c.c. che individua gli obblighi e la responsabilità degli amministratori.

Ne deriva, dunque, che «rientrando gli interessi tutelati dalle norme penali societarie e fallimentari tra quelli affidati alle cure degli amministratori, è correttamente configurabile il concorso ex art. 40, cpv., c.p. tutte le volte in cui l’amministratore di una società, violando l’obbligo di vigilanza e quello di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli, abbia consentito ad altri amministratori (o comunque a soggetti che di fatto abbiano compiuto atti di gestione) di perpetrare delitti (fattispecie in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione)». (Sez. 5, n. 15850 del 26.6.1990, Bo., Rv. 185887 - 01).

Quanto sopra affermato, però, esaurisce soltanto l’elemento oggettivo del reato, mentre in relazione all’elemento psicologico la Corte effettua le seguenti precisazioni:

“in tema di tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, l’elemento soggettivo del dolo, in forma diretta o eventuale, dell’amministratore formale, postula almeno la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto (da ultimo, Sez. 5, n. 32413 del 24.9.2020, Lo., Rv. 279831).

Ed invero, costituisce principio ampiamente sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte e condiviso da questo Collegio, quello secondo cui, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, non legittima la presunzione del concorso nella dolosa sottrazione da parte dell’amministratore di diritto, mera testa di legno, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto. (Sez. 5, n. 54490 del 26.9.2018, C., Rv. 274166-01; Sez. 5, n. 19049 del 19.2.2010, Su., Rv. 247251-01; Sez. 5, n. 28007 del 4.6.2004, Sq., Rv. 228713- 01)”

Ed invero, con riferimento all’ipotesi criminosa qui contestata, l’occultamento e la sottrazione delle scritture contabili richiede la sussistenza del dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta. (Sez. 5, n. 33114 del 8.10.2020; Sez. 5, n. 26379 del 5.3.2019; Sez. 5, n. 43966 del 28.6.2017; Sez. 5, n. 18634 del 1.2.2017).

Con particolare riferimento all’elemento psicologico, come ricordato in motivazione da Sez. 5, n. 15743 del 18.1.2023

«nei soli casi di sottrazione, distruzione, occultamento […], è richiesto un elemento ulteriore, ossia il pregiudizio per i creditori (o l’ingiusto profitto che l’agente intende raggiungere, per sé o per terzi), che integra il dolo specifico richiesto dalla norma»

Nella vicenda che qui ci occupa:

“anche se non può sottovalutarsi la circostanza che l’amministratore di fatto, vero deus ex machina dell’intera operazione fraudolenta, abbia avvertito la necessità di far figurare quale amministratrice formale, già dalla costituzione della società, la sorella e che l’accettazione del ruolo di prestanome per l’intera vita della società possa far intravedere in capo a quest’ultima la consapevolezza di contribuire al disegno fraudolento del congiunto, tuttavia non può non evidenziarsi che si tratta di elementi di mero sospetto, come tali non sufficienti a ritenere provato che il contributo della donna fosse consapevole delle specifiche finalità perseguite dall’amministratore di fatto”

La Corte d’appello ha ravvisato tale consapevolezza nella mera circostanza che la testa di legno aveva svolto le mansioni di operaia «nelle varie compagini che invariabilmente si sono succedute e già solo questo vale ad affermare che l’imputata sapeva qual era il modus operandi delle compagini di depauperamento del patrimonio sociale per effetto della lievitazione dei debiti e di creazione delle altre società che si diversificavano solo per la denominazione»; ella poi, ha evidenziato la Corte, è la sorella del deus ex machina e « sempre in famiglia gli affari societari sono stati gestiti, comparendo come soci sempre familiari [...] in due occasioni è stata [...] presente negli incontri [...] in cui si parlò delle condizioni contrattuali gravose per la stessa società conseguendone l’effettiva conoscenza da parte dell’imputata quantomeno di segnali d’allarme che avrebbero potuto condurre alla decozione e ciò nonostante non attivandosi e accettando il rischio». Tali dati, a cui la Corte d’appello ha ancorato il riconoscimento della qualità, a pieno titolo, dell’amministratrice formale e della sua conseguente responsabilità, si appalesano di per sé soli insufficienti per ritenere in capo all’imputata la consapevolezza dei disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto anche là dove si abbia riguardo a quanto evidenziato nella sentenza di primo grado (pag. 41) ove è dato leggere che «durante l’esame nel corso del giudizio abbreviato, A.L. ha più volte affermato che la sorella S. era completamente estranea all’amministrazione della società, perché per tutta la vita aveva svolto l’attività di camiciaia ed era rimasta sostanzialmente una mera operaia; quando era necessario recarsi in banca o firmare comunque dei documenti, era lo stesso A.L. ad accompagnarla. Al di là della scarsa credibilità di A.L., si deve ritenere che tali sue dichiarazioni, almeno con riferimento alla sorella, che egli ha coinvolto nelle torbide vicende gestionali della «Alfa», siano veritiere, non solo valutando la personalità di A.L. e il suo modus operandi, [...], ma anche considerando il tenore delle intercettazioni telefoniche sopraindicate dalle quali appare in tutta evidenza che l’attività di amministratore era riconducibile ad A.L.».

Orbene, di conseguenza

è ovvio che l’assunzione solo formale della carica costituisce un importante indizio della configurabilità del dolo richiesto per la sussistenza dei reati addebitati, ma occorre altresì che vengano individuate, rifuggendo da rigidi automatismi probatori, le specifiche ragioni per cui sia possibile ritenere, nei termini suindicati, che l’amministratrice formale ha consapevolmente concorso nella realizzazione dei reati ad essa addebitati

Falso in bilancio: cosa prevede la sentenza della Corte di Cassazione numero 631/2025

Condanna degli imputati per il reato di bancarotta impropria da reato societario, nella fattispecie falso in bilancio, in concorso con il delitto di falso in bilancio

Le conclusioni raggiunte dai giudici merito non convincono gli Ermellini, atteso che hanno omesso di considerare che

la fattispecie di cui all’art. 223 comma 2 n. 1) legge fall., configura una ipotesi di reato complesso ex art. 84 c.p., contenendo al suo interno, quale elemento costitutivo, un fatto (quello di falso in bilancio) che costituirebbe, di per sé stesso, altro reato, il quale rimane dunque assorbito. Infatti, la consolidata giurisprudenza di legittimità afferma che il falso in bilancio seguito dal fallimento della società integra l’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria e si distingue dalla fattispecie di cui all’art. 2621 c.c., che è reato sussidiario punito a prescindere dall’evento fallimentare. Pertanto, verificatosi il fallimento, il fatto di cui all’art. 2621 c.c. rimane assorbito nel reato di bancarotta impropria (Sez. 5, n. 15062 del 2.3.2011, Si., Rv. 250092; Sez. 5, n. 7293 del 28.5.1996, Sc., Rv. 205987)

In aggiunta, è da ritenersi fondata l’obiezione difensiva relativa alla valutazione di sussistenza del nesso di causalità tra la condotta di falso in bilancio e l’aggravamento del dissesto societario che ne sarebbe derivato, in quanto la Corte territoriale ha omesso di valutare e specificare la natura del conferimento effettuato da [omissis] a favore della fallita.

Brevi note tecniche e operative

La legge fallimentare - art. 216 del R.D. n. 267 del 1942, rubricato “Bancarotta fraudolenta” (oggi articolo 322 del D.Lgs.n.14/2019) - al comma 1, punisce con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti (cd. bancarotta fraudolenta patrimoniale);
2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (cd. bancarotta fraudolenta documentale).

La fattispecie delineata al n. 2, del comma 1, dell’art. 216, della L.F., pur se unitaria viene generalmente spacchettata in due: la prima, specifica, ed investe la sottrazione, distruzione o falsificazione della contabilità; la seconda, generica, e riguarda la tenuta delle scritture contabili, in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

In sede giurisprudenziale, con la sentenza n. 15484/2021, la V Sezione penale della Corte di Cassazione è dovuta intervenire su un caso di bancarotta fraudolenta documentale, chiarendo la diversità della condotta materiale tra quelle alternative previste dall’articolo 216, comma 1, n. 2), della L.F.: “le ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale di cui all’art. 216, primo comma, n. 2, prima e seconda ipotesi, legge fall. sono alternative, ciascuna idonea ad integrare il delitto in questione, per cui, accertata la responsabilità in ordine alla tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita – che richiede il solo dolo generico – diviene superfluo accertare il dolo specifico richiesto per la condotta di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, anch’essa contestata (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271753).

Fermo restando che

la bancarotta semplice e quella fraudolenta documentale si distinguono in relazione al diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo, che, ai fini dell’integrazione della bancarotta semplice ex art. 217, secondo comma, legge fall., può essere indifferentemente costituito dal dolo o dalla colpa, ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture contabili, mentre per la bancarotta fraudolenta documentale, ex art. 216, primo comma, n. 2), legge fall., l’elemento psicologico deve essere individuato esclusivamente nel dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle scritture, con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore (Sez. 5, n. 2900 del 02/10/2018, dep. 2019)”.

Inoltre, come da tempo acclarato dalla giurisprudenza di legittimità, il falso in bilancio, seguito dal fallimento della società, integrano l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (cfr. Sez. 5, n. 15062 del 02/03/2011 e Cass.3197/2024). Proprio Cass.sent.n.3197/20124, ribadisce

che l’ipotesi di falso in bilancio seguito da fallimento della società di cui all’art. 223, comma 2, n. 1, I.f., costituisce un’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria e si distingue sia dal falso in bilancio previsto dall’art. 2621, c.c., che è reato sussidiario punito a prescindere dall’evento fallimentare, sia dalla bancarotta documentale propria concernente ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili. Pertanto, verificatosi il fallimento, il fatto di cui all’art. 2621, c.c., è assorbito nel reato di bancarotta impropria, mentre concorre con il delitto di bancarotta fraudolenta documentale specifica, di cui all’art. 216, comma 1, n. 2, I.f., ove integrato da condotte diverse dalla falsificazione (cfr. Sez. 5, n. 7293 del 28/05/1996, Rv. 205987; Sez. 5, n. 323 del 3.12.2020).

In altri termini, come affermato dalla dottrina prevalente e dalla stessa giurisprudenza di legittimità in un condivisibile arresto, il delitto di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario è strutturato come reato complesso, rispetto al quale un reato societario, tra quelli espressamente previsti dal legislatore ed assunto come elemento costitutivo, deve essere causa o concausa del dissesto societario, pur dovendosi individuare il momento di consumazione del reato nella dichiarazione di fallimento (cfr., Sez. 5, n. 32164 del 15/05/2009, Rv. Corte di Cassazione - copia non ufficiale 3 244488), posto che il rinvio operato dall’art. 223, co. 2, n. 1), l.f., riguarda le intere fattispecie incriminatrici contemplate nei singoli reati societari e non i soli fatti, intesi come condotta ed evento, in essi descritte (cfr., in questo senso, Sez. 5, n. 23236 del 23/04/2003, Rv. 224950)

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