Analisi di un caso pratico relativo alle responsabilità del sindaco di società di capitali nel caso di crisi di impresa e procedure concorsuali
Con l’ordinanza n. 10198/2024, la Corte di Cassazione ha affermato che nel caso in cui l’azione di responsabilità proposta dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori della società fallita trovi il suo fondamento nella violazione da parte di questi ultimi del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dall’articolo 2449 del codice civile, nel testo anteriore alla riforma del diritto societario del 2003, il danno deve essere liquidato nella misura corrispondente alla perdita incrementale, riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società, a condizione, però, che tale perdita sia effettivamente riferibile alla prosecuzione dell’attività e che la stessa non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato.
La responsabilità dei sindaci vista dalla Corte di Cassazione: analisi di un caso pratico
Il curatore fallimentare di una S.p.a. ha convenuto in giudizio gli amministratori della società fallita e i sindaci della stessa, chiedendo la condanna dei convenuti, in solido tra loro, al risarcimento di tutti i danni cagionati alla società in un determinato periodo temporale, fino al fallimento.
L’azione di responsabilità azionata si fonda sul fatto che gli amministratori, pur a fronte della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, avevano inadempiuto agli obblighi previsti dalla legge, preoccupandosi, piuttosto, con la compiacenza del collegio sindacale, di nascondere le suddette perdite attraverso la sopravvalutazione di poste dell’attivo e la svalutazione o mancata appostazione di poste del passivo, ed avevano, in tal modo, proseguito l’attività sociale, provocando, nel periodo successivo alla perdita del capitale, un aumento notevole delle passività.
Il tribunale ha ritenuto fondata l’azione di responsabilità promossa:
“sotto il profilo dell’irregolarità della tenuta, dall’esercizio 2001, della contabilità sociale tale da rendere la stessa del tutto inattendibile, così impedendo alla Curatela un’esatta ricostruzione dell’attività sociale”
Ha, quindi, condannato tutti i convenuti al “risarcimento del danno subito dalla…, presuntivamente determinato nella misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare,” in ragione del principio per cui “l’impossibilità di determinare in modo specifico il nesso esistente tra le singole violazioni in cui siano incorsi gli amministratori e l’ammontare del danno globalmente accertato”. E “in conseguenza della circostanza che le scritture contabili siano state tenute in modo da impedire la ricostruzione a posteriori delle vicende societarie legittima l’ascrivibilità a loro carico dell’intero danno.”
Il tribunale, quindi, ha, tra l’altro, condannato i convenuti in solido tra loro, al pagamento in favore della curatela.
La Corte d’Appello, investita della questione, ha esaminato, in dichiarata applicazione del principio processuale della ragione più liquida, il secondo motivo d’appello principale, che attiene al quantum, sul rilievo che la sua fondatezza conduceva ad una decisione di merito di rigetto della domanda risarcitoria avanzata dal Fallimento.
La Corte, sul punto, ha rilevato innanzitutto che verificare quali siano gli effetti dell’inadempimento specificamente allegato, posto che, ove “all’inadempimento specifico allegato non sia neppure teoricamente concepibile ricollegare la produzione di effetti dannosi pari alla differenza tra attivo e passivo”, tale criterio risulta “privo di ogni base logica”.
Neppure nel caso di “mancato rinvenimento delle scritture contabili”, pur non potendosi escludere che ciò costituisca esso stesso ragione di danno, “appare logicamente plausibile farne discendere la conseguenza dell’insolvenza o dello sbilancio patrimoniale della società divenuta insolvente” e “non può farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare”.
Inoltre, pur se:
“la mancanza delle scritture contabili renda difficile per il curatore una quantificazione ed una precisa prova del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore, lo stesso curatore potrà invocare a proprio vantaggio la norma di cui all’art. 1226 c.c. e chiedere la liquidazione in via equitativa del danno al giudice, che, a sua volta, potrà tener conto dello sbilancio patrimoniale indicando espressamente le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a tale criterio facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.”
Nel caso di specie, per la Corte di Appello, l’impugnazione proposta dai convenuti soccombenti, lì dove avevano lamentato che la sentenza appellata aveva loro imputato la differenza tra attivo e passivo, pur non avendo la curatela assolto all’onere di provare il nesso causale tra i singoli fatti addebitati e il danno liquidato, era fondato.
Il curatore, infatti, ha osservato la Corte d’appello, aveva addebitato agli amministratori:
- di non aver assunto “alcuna iniziativa tesa ... a rendere veridiche le scritture contabili”;
- di non aver assunto iniziative “tese a rettificare le poste contabili, così consentendo l’emersione della reale situazione patrimoniale della società”;
- ai sindaci di “non avere assunto iniziative di sorta a fronte della sostanziale inattendibilità delle scritture contabili della società poi fallita già a partire dall’anno 2001, astenendosi in particolare, in presenza di una contabilità di magazzino... del tutto inattendibile, ... dall’assumere le iniziative necessarie affinché gli organi amministrativi procedessero alle rettifiche necessarie ripristinando una contabilità seria e credibile”.
Si tratta, tuttavia, ha proseguito la Corte, di addebiti che:
“non consentono di ritenere sussistente, già sul piano logico-giuridico, il nesso causale tra tali fatti specifici ed il danno arrecato alla massa nella differenza tra attivo e passivo.”
Il curatore, infatti, non ha dedotto, né è emerso dall’istruttoria espletata, che “la non veridicità dei bilanci già a partire dall’esercizio 2001”, con riguardo in particolare alla contabilità di magazzino, era idonea ad “impedire di effettuare una ricostruzione delle attività poste in essere dagli amministratori e dei danni conseguenti”, tant’è che la stessa Curatela aveva chiesto una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare il danno richiesto, consistente, innanzitutto, nella “differenza tra il netto patrimoniale esistente al momento della perdita del capitale sociale e quello esistente al momento della dichiarazione di Fallimento”.
Secondo la Corte d’Appello, alla luce dei principi esposti, la statuizione con la quale tribunale ha ritenuto che il danno subito dalla società fallita doveva essere “presuntivamente determinato nella misura pari alla differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare”, non poteva essere, pertanto, condivisa.
La responsabilità dei sindaci vista dalla Corte di Cassazione, il pensiero degli Ermellini
Osservano gli Ermellini, che non può che ribadirsi il principio secondo il quale, nel caso in cui l’azione di responsabilità proposta dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori della società fallita trovi il suo fondamento nella violazione da parte di questi ultimi del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dall’art. 2449 c.c., nel testo anteriore alla riforma del diritto societario del 2003, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., il danno dev’essere liquidato nella misura corrispondente alla “perdita incrementale riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società”, a condizione, però, che tale perdita, a seguito di uno specifico accertamento in fatto sul punto, sia effettivamente riferibile “alla prosecuzione dell’attività” e che la stessa “non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato”, dovendosi, comunque, dedurre dalla stessa la parte che si sarebbe comunque prodotta:
“anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa (Cass. n. 17033/2008).”
In caso d’impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili, tuttavia, il giudice può avvalersi, ai fini della liquidazione del danno, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali (Cass. n. 4347/2022) ovvero di quello equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare (Cass. n. 19733/2015):
“sempre che sia stato allegato un inadempimento degli amministratori almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore (Cass. SU n. 9100/2015; Cass. n. 38/2017; Cass. n. 13220/2021).”
La mancanza di scritture contabili, al pari della sommarietà delle stesse o della loro inintelligibilità, se, dunque, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna degli amministratori (e dei sindaci che, con la loro inerzia, vi abbiano concorso) in misura corrispondente alla differenza tra passivo accertato e attivo liquidato in sede fallimentare, consente, nondimeno, proprio a fronte dell’impossibilità di quantificare esattamente il danno per la mancanza dei dati contabili a tal fine necessari, la liquidazione equitativa del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale in corrispondenza del deficit emerso nella procedura concorsuale ove il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento almeno astrattamente idoneo a porsi come causa di un danno di tale entità (cfr. Cass. n. 15245/2022).
La responsabilità dei sindaci vista dalla Corte di Cassazione, alcune brevi note
Nessuno dubita ormai dubita che la responsabilità degli amministratori nei confronti della società abbia natura contrattuale.
Ma ciò non toglie però che la condanna al risarcimento dei danni implica pur sempre la prova del nesso di consequenzialità tra una condotta di mala gestio, addebitata agli amministratori, e il danno occorso alla società.
Come chiarito dalle Sezioni Unite:
“nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, secondo comma, legge fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa, ove però ne sussistano le condizioni, e sempreché il ricorso a esso (criterio) sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile; e sempreché, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo (v. Cass. Sez. U n. 9100/15, Cass. n. 38/17, Cass. n. 13220/21).”
I giudici, nella pronuncia da cui abbiamo preso le mosse, richiamano l’ordinanza n. 15245/2022, dove viene rilevato che la sentenza impugnata si pone in contrasto con le coordinate di tale insegnamento.
Essa ha mancato di indicare in qual senso gli addebiti mossi (“riassumibili nella mancata corretta tenuta delle scritture aziendali”) avessero a porsi:
“in relazione causalistica con fantomatici effetti dannosi dell’attività gestoria.
Ha sì menzionato alcuni fatti (pagamenti non annotati, prelevamenti, fatture di acquisto e connesse cessioni di merce, incassi in contanti), ma senza tuttavia offrirne un pur minimo significato in termini di nocumento patrimoniale conseguente per la società.”
Resta fermo che (Cass.n.15245/2022) ove faccia difetto la regolarità contabile, l’intero deficit fallimentare non può essere automaticamente attribuito ad atti di mala gestio, a prescindere dall’identificazione di tali atti e della loro finanche solo presunta idoneità pregiudizievole:
“in quanto pur nell’ambito delle azioni di responsabilità grava sempre, in linea di principio, su chi agisce in giudizio l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità materiale tra questo e le condotte che si assumano tenute in violazione di doveri inerenti alle funzioni gestorie svolte dagli amministratori. E la mancanza di scritture contabili, ovvero la sommarietà di redazione di esse o la loro inintelligibilità, non è in sé sufficiente a giustificare la condanna dell’amministratore in conseguenza dell’impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso rispetto ai fatti causativi del dissesto. Essa presuppone, invece, per essere valorizzata in chiave risarcitoria nel contesto di una liquidazione equitativa, che sia comunque previamente assolto l’onere della prova circa la l’esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale; sicché il criterio del deficit fallimentare resta sì applicabile, ma soltanto come criterio equitativo, per l’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno in conseguenza dell’affermazione di esistenza della prova - almeno presuntiva – di condotte di tal genere.”
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: La responsabilità dei sindaci nella S.p.A.