Con il decreto numero 2304 del 2024, la Corte d'Appello di Roma ha evidenziato i profili più rilevanti di uno specifico caso di cram down
La Corte d’Appello di Roma, Sez. I, con il Decreto n. 2304 del 2024, ha affrontato un caso di cram down, evidenziando alcuni profili che meritano di essere rilevati.
Nella specie, una società operante nel settore dei servizi connessi all’informatica, all’esito del deposito di un ricorso ex art. 161, sesto comma, L.f. e della concessione di termini da parte del Tribunale di Roma, aveva depositato ricorso per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182 bis L.f., con allegata proposta di transazione fiscale.
Presupposti di ammissibilità del cram down: il caso di specie
Successivamente la società aveva depositato relazione integrativa, nel cui ambito aveva reso nota la maggiore consistenza del debito tributario e, prendendo atto della mancata adesione dell’Agenzia delle Entrate alla proposta di transazione fiscale, aveva comunque richiesto l’omologazione in cram down dell’accordo, considerato il valore determinante del credito facente capo all’Amministrazione finanziaria e la maggiore convenienza dell’accordo stesso rispetto all’alternativa liquidatoria.
Al ricorso era stato peraltro allegato un piano industriale, dal quale emerge un passivo pari ad Euro 9.504.229,00 (di cui Euro 7.985.637,00 per debiti tributari oggetto di transazione fiscale), che si fondava:
- sui flussi di cassa generati dall’attività in continuità, asseritamente idonei a consentire il pagamento sia dei creditori non aderenti che di quelli aderenti;
- sulla transazione ex art. 182 ter L.f. avente ad oggetto il debito nei confronti dell’Erario, pari a circa l’83 per cento dell’indebitamento complessivo, con la quale si proponeva il pagamento di Euro 324.627,00;
- sulla rinuncia a crediti e finanziamenti vs soci da parte del socio di maggioranza della ricorrente e delle persone fisiche dei suoi soci, per complessivi Euro 99.908,50.
Sulla base di tali previsioni e della relazione del professionista attestante la veridicità dei dati aziendali e la attuabilità dell’accordo, con particolare riguardo al pagamento dei creditori veniva previsto il pagamento del creditore aderente Erario nella misura sopra indicata e l’integrale pagamento di tutti gli altri creditori (dipendenti, fornitori, istituti di credito, enti previdenziali ed erario non compreso nella transazione fiscale), non aderenti, entro il termine di 120 giorni dall’omologa, per i crediti non scaduti, e di 120 giorni dalle rispettive scadenze, per gli altri.
Con provvedimento interlocutorio il Tribunale aveva richiesto di fornire chiarimenti, corredati da relazione integrativa, in ordine ad alcuni rilevati profili di contrasto con la disciplina di legge, ravvisati:
- nell’insufficienza delle risorse finanziarie previste nel piano rispetto alle relative attività solutorie;
- nella previsione, con riguardo ai creditori estranei all’accordo, di un programma di pagamenti articolato secondo una tempistica sviluppata in un arco temporale ben superiore alla moratoria di cui all’articolo 182 bis, primo comma, L.f., senza che nell’attestazione fossero state fornite delucidazioni in ordine al rispetto dei termini di pagamento previsti dalla legge ed alla stessa distinzione tra crediti estranei scaduti e non scaduti, determinante ai fini della decorrenza dei termini.
In replica a tali richieste la società depositava una nota integrativa, i cui chiarimenti non venivano però ritenuti esaustivi dal Tribunale, che dichiarava pertanto l’inammissibilità del ricorso.
Il Tribunale, dopo aver dato conto dell’ambito del sindacato esperibile in sede di omologa di accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis L.f. (comprendente la verifica “di tutti gli aspetti di legalità sostanziale e tra questi anche quelli inerenti la effettiva garanzia di soddisfacimento dei creditori estranei all’accordo nei tempi previsti per legge, ... in termini di plausibilità e ragionevolezza”), aveva affermato che “nel caso di specie sia il piano che l’attestazione appaiono affetti da assoluta inidoneità informativa; ed invero il piano ed il ricorso non contengono alcuna indicazione in ordine all’entità ed alla natura dei crediti “già scaduti” ovvero “non ancora scaduti” alla data dell’omologazione, limitandosi a proporre un “piano di rientro” dei debiti semplicisticamente distinti in “estranei all’Accordo” ed “inclusi nell’Accordo”….; e parimenti è a dirsi per la relazione di cui all’art. 182 bis, co. 1 l.f. che non solo si limita a ricalcare pedissequamente il piano e i successivi “chiarimenti” senza fornire alcuna precisione e/o specificazione in ordine alla scadenza dei crediti “estranei all’accordo” ma giunge altresì ad affermare che “l’accordo di ristrutturazione risulta più favorevole per il ceto creditorio rispetto all’eventuale alternativa liquidatoria/fallimentare... soprattutto in ragione del fatto che nel caso di omologazione dell’accordo di ristrutturazione è previsto l’apporto di finanza esterna a tutto vantaggio del ceto creditorio”, laddove però il piano non prevedeva alcuna finanza esterna e le disponibilità liquide erano con tutta evidenza insufficienti a garantire il soddisfacimento dei “debiti estranei”.
A ciò poi andava aggiunto che l’esistenza e la validità delle rinunce di crediti da parte della socia di maggioranza della società istante non risultavano essere state oggetto di alcuna puntuale verifica da parte dell’attestatore.
Quanto infine alla attuabilità del piano, il Tribunale ricordava che non è sufficiente che il piano “possa” realizzarsi, occorrendo piuttosto che l’attestatore dichiari che la realizzazione del piano è contraddistinta da una elevata probabilità, tendente alla certezza; in altri termini è necessario che la mancata realizzazione sia conseguenza di un evento straordinario normalmente imprevedibile e che il professionista incaricato attesti la possibilità di prevedere che l’imprenditore, una volta intervenuta l’omologa, avrà risorse tali da consentirgli di adempiere integralmente innanzitutto le obbligazioni verso i creditori estranei ma anche di pagare regolarmente i creditori sopravvenuti, dovendo quindi il piano essere sottoposto ad approfondito stress test, e ciò sia considerando l’ottica peggiorativa del cd. worst case (volumi di vendita al di sotto di quelli previsti, incremento del prezzo di acquisito delle materie prime, ecc.) e sia considerando l’ottica migliorativa del cd. best case (volumi di vendita superiori rispetto a quelli previsti, contrattazione decisamente favorevole degli acquisti delle materie prime o dei costi per servizi, ecc.), laddove viceversa la relazione non conteneva alcun “concreto”, “autonomo” e “ragionato” accertamento circa la tenuta delle valutazioni economiche fatte, e dovendosi pertanto escludere, secondo il giudice, l’effettiva verifica, da parte del professionista attestatore, dell’attuabilità dell’accordo.
Avverso tale provvedimento la società proponeva reclamo, lamentando, per quanto di interesse, il fatto che il Tribunale avesse esorbitato dal criterio di giudizio allo stesso facente capo nell’ambito del giudizio di omologazione di accordi di ristrutturazione, laddove la verifica sulla “attuabilità” dell’accordo, considerata l’assenza di opposizioni, si sarebbe dovuta risolvere in un mero controllo di legittimità formale della proposta di accordo, dovendo Tribunale prescindere da ogni considerazione in ordine all’attendibilità delle conclusioni contenute nella relazione del professionista.
In ogni caso, affermava la ricorrente, il giudizio di non fattibilità “economica” si sarebbe potuto emettere solo a fronte di una manifesta inettitudine del piano connesso alla proposta di accordo a raggiungere gli obiettivi prefissati, nella specie dovendo invece ritenersi la completezza della relazione e l’assoluta ragionevolezza della conclusione ivi prospettata circa la attuabilità del piano.
Con altro motivo di reclamo la società evidenziava poi come il Tribunale avesse fatto mal governo della disciplina sulla ristrutturazione “coattiva” dei debiti fiscali e contributivi sotto un duplice profilo, posto che, in primo luogo, non aveva valutato l’alternativa fallimentare, e, in secondo luogo, non aveva svolto alcuna considerazione sul fatto che la gran parte del debito erariale (e segnatamente la somma di cinque milioni di euro, oggetto di recupero a seguito del disconoscimento di una serie di crediti per ricerca e sviluppo) fosse comunque contestata in giudizio.
Alla luce di tali considerazioni richiedeva, in riforma del decreto reso dal Tribunale di Roma, l’omologazione dell’accordo anche in mancanza di adesione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
L’Agenzia delle Entrate eccepiva l’inesistenza di alcun accordo con i creditori, in ipotesi suscettibile di essere omologato, rilevando come la reclamante non avesse sottoposto al Tribunale, né tantomeno provveduto a iscrivere presso il Registro delle Imprese, così come richiesto dal primo e secondo comma dell’art. 182-bis L.f., il testo di alcun accordo, accettato da almeno uno dei creditori le cui pretese creditorie fossero in ipotesi venute ad essere ridotte o elise (con l’ulteriore effetto che non era neppure iniziato a decorrere il termine di trenta giorni per eventuali opposizioni), essendosi la società limitata a manifestare la volontà di addivenire ad una transazione fiscale con l’Agenzia delle Entrate, titolare di circa l’83 per cento dell’esposizione debitoria complessiva, peraltro solo per il tramite dell’istituto dell’adesione forzosa stante la mancata manifestazione di consenso ad opera della stessa amministrazione.
A conferma dell’assunto l’Amministrazione evidenziava come tutti gli altri creditori fossero stati inseriti tra quelli non aderenti al piano e come neppure potessero essere ritenuti aderenti i soggetti che avevano rinunciato ai rispettivi crediti solo subordinatamente all’omologazione dell’accordo.
Di fatto, pertanto, la richiesta omologazione del sedicente accordo di ristrutturazione si risolveva in una inammissibile omologazione di una transazione fiscale imposta, dovendo quindi essere confermata la declaratoria di inammissibilità della richiesta di omologa resa dal Tribunale, seppure per una diversa ragione (pacificamente rilevabile d’ufficio).
In subordine l’Agenzia delle Entrate rilevava comunque l’infondatezza del reclamo, dovendo a suo avviso essere condivise le considerazioni svolte dal Tribunale in ordine alla non attuabilità del piano.
Presupposti di ammissibilità del cram down: il parere della Corte di Appello di Roma
Secondo la Corte di Appello, l’istanza di omologazione dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis L.f. era inammissibile.
Il preteso accordo di ristrutturazione del debito raggiunto con i creditori doveva infatti in realtà ritenersi coincidente con la transazione fiscale. Il piano di ristrutturazione dei debiti si basava, in sostanza, in via esclusiva, sull’adesione “forzata” dell’Amministrazione finanziaria alla transazione fiscale, mentre tutti gli altri creditori della società diversi dal fisco (dipendenti, fornitori, istituti di credito, erario non compreso nella transazione fiscale, enti previdenziali) erano considerati, dalla stessa società quali creditori estranei all’accordo, tanto che se ne prevedeva l’integrale soddisfacimento.
Né era rinvenibile in atti alcun testo di accordo di ristrutturazione con eventuali creditori diversi dall’Amministrazione finanziaria, tali non potendo ritenersi le dichiarazioni unilaterali di rinuncia ai crediti allegate alla relazione dell’esperto.
La stessa ricorrente non aveva considerato tali rinunce quali integranti un accordo suscettibile di omologazione, tanto che non aveva nemmeno predisposto alcun deposito presso il registro delle imprese.
In definitiva l’accordo sarebbe stato raggiunto unicamente con il fisco e solo per effetto della valutazione giudiziale di maggiore convenienza delle condizioni offerte in suo favore nell’ambito della proposta di transazione fiscale rispetto all’alternativa fallimentare. Cioè, una richiesta di omologazione di una “transazione fiscale imposta” per il tramite del meccanismo del “cram down”; possibilità questa non ammissibile, laddove anche prima delle disposizioni introdotte dalla L. n. 103 del 2023 la legge fallimentare comunque presupponeva la necessità della preesistenza di un accordo di ristrutturazione, rispetto al quale si inserisse, in maniera determinante, la percentuale facente capo al creditore forzosamente aderente, atta a consentire il raggiungimento della percentuale minima di legge.
Oggetto dell’omologazione da parte del Tribunale, in altri termini, è il preesistente accordo di ristrutturazione dei debiti, di cui si prevede la pubblicazione nel registro delle imprese al momento del deposito della domanda (incombenza della quale non si aveva evidenza), nel quale si inserisce la proposta di transazione fiscale, laddove lo stesso tenore dell’art. 182 bis, quarto comma, L.f.. presuppone, sotto il profilo logico, che accordi di ristrutturazione siano stati raggiunti con altri soggetti, l’ammontare dei cui crediti non raggiunga il 60 per cento, di modo che, in presenza dei relativi presupposti, si renda necessaria l’estensione al creditore pubblico per ovviare al mancato raggiungimento della maggioranza.
Del resto, conclude la Corte, se si giungesse a ritenere ammissibile un accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis come quello di specie, fondato sulla ristrutturazione dell’unico debito facente capo all’Amministrazione finanziaria, a fronte dell’integrale soddisfazione di tutti gli altri creditori (che nella fattispecie esistevano ed erano titolari di una percentuale di circa il 20 per cento del totale dei debiti), non sarebbe configurabile alcun interesse concorsuale in funzione del quale sacrificare la volontà del fisco a quella del debitore.
Così ragionando, l’istituto del cram down si trasformerebbe nell’imposizione a tali soggetti pubblici di una soluzione unilaterale predisposta dal debitore.
Conclusione non sostenibile, in quanto implicante una distorsione degli strumenti offerti per la regolamentazione della crisi.
In definitiva e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova evidenziare che la pur frastagliata disciplina che il Codice della Crisi dedica agli accordi di ristrutturazione e alla loro omologazione conferma la necessità che degli accordi siano innanzitutto consacrati in un testo scritto e siano poi pubblicati nel Registro delle Imprese.
La normativa, come visto, impone infatti necessariamente la pubblicazione nel registro delle imprese non solo della domanda di omologa ma anche degli accordi che ne costituiscono l’oggetto, non potendo diversamente i soggetti legittimati a proporre opposizione valutare neppure la convenienza o meno del trattamento ad essi riservato rispetto ad altri creditori concorrenti.
Altro aspetto importante è poi quello della conformità della proposta alla situazione reale, in assenza della quale il cram down non è applicabile, tanto più quando il debitore non fornisca una rappresentazione completa, veritiera e trasparente di tutte le informazioni e la contabilità non sia attendibile.
È onere del debitore infatti fornire tutte le informazioni necessarie e appropriate al fine di consentire al Tribunale un esercizio consapevole del cram down.
In caso contrario, il Tribunale, a fronte di un dissenso concretamente motivato, non potrà comprimere i diritti del creditore pubblico (cfr., Tribunale di Tivoli, decreto del 04.04.2013).
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Presupposti di ammissibilità del cram down