Un'analisi della normativa di riferimento per il cram down fiscale e contributivo e delle posizioni del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull'interpretazione della norma
Con la modifica dell’art. 180, quarto comma, ultimo periodo L.f., a seguito del Dl. n. 118 del 24 agosto 2021, parte della giurisprudenza e della dottrina ha concluso nel senso che nel concordato preventivo, così come negli accordi di ristrutturazione dei debiti, si applica sempre il cram down, anche in caso di voto negativo espresso del creditore pubblico.
Il nuovo testo dell’art. 180 quarto comma ultimo periodo L.f., entrato in vigore a decorrere dal 24 agosto 2021, prevede che “il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di adesione”, in luogo dell’originaria previsione secondo la quale “Il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di voto”.
In tale contesto, il nuovo cram down fiscale e contributivo mira a superare la possibile inerzia del creditore istituzionale, che può costituire un ostacolo a soluzioni alternative alla liquidazione, quand’anche più convenienti per i crediti pubblici.
Cram down: cos’è? Ecco l’interpretazione della norma
Con riferimento al concordato preventivo, il comma quarto dell’art. 180, L.f., come poi novellato dal DL 125/2020, attribuisce in sostanza al Tribunale il potere di omologare il concordato preventivo anche “in mancanza di adesione” da parte dell’Amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali e assistenziali quando l’adesione da parte dei predetti enti è determinante ai fini del raggiungimento delle maggioranze di cui all’articolo 177 L.f., e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione dell’attestatore, la proposta di soddisfacimento del Fisco e/o degli enti previdenziali è (più) conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria.
Analogamente, per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione, al comma quarto dell’art. 182 bis, L.f., è stata poi inserita la possibilità per il Tribunale di omologare l’accordo “in mancanza di adesione” dell’Erario e degli enti di previdenza obbligatoria quando la predetta adesione sia decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale del 60 per cento dei creditori aderenti, richiesta dal primo comma del medesimo art. 182 bis ai fini della conclusione degli accordi.
Attorno all’effettiva portata di tali locuzioni ed al loro preciso significato si è innestato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che, con particolare riferimento alla possibilità per il Tribunale di procedere o meno all’omologazione “coattiva” del concordato preventivo anche a fronte di un diniego espresso alla proposta concordataria da parte dell’Erario e/o degli Enti previdenziali, ha visto emergere sostanzialmente due teorie.
Secondo l’orientamento c.d. “restrittivo”, il Tribunale può intervenire ai sensi dell’art. 180, quarto comma, L.f. in via sostitutiva dell’Erario/Enti di previdenza solo allorquando non sia intervenuta alcuna espressione di voto o di adesione, da intendersi quale mancanza di manifestazione di volontà.
La locuzione “in mancanza di adesione”, secondo tale orientamento, non potrebbe infatti ricomprendere anche l’ipotesi del diniego espresso, in quanto, laddove il legislatore avesse inteso la norma comprensiva anche di tale fattispecie, lo avrebbe precisato in modo palese, in aderenza al canone ermeneutico ubi lex voluit, dixit.
Questa lettura della norma è del resto l’unica compatibile con la previsione contenuta nel considerando (64) della Direttiva UE n. 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20.6.2019, che consente agli Stati membri di “decidere come comportarsi con i creditori che hanno ricevuto correttamente la notifica ma che non hanno partecipato alle procedure”.
Una diversa interpretazione “estensiva” consentirebbe infatti al Tribunale di procedere con l’omologazione nonostante l’eventuale insussistenza dei presupposti richiesti dalla direttiva, tra cui la necessità di rispettare la c.d. relatively priority rule, oltre che quella di consentire, comunque, all’autorità giudiziaria di non procedere all’omologa, quando la ristrutturazione proposta non si profili realmente in grado di superare lo stato di insolvenza.
Pertanto, l’applicabilità dell’art. 180 quarto comma L.f. anche in presenza di un diniego espresso da parte dei creditori qualificati alla proposta concordataria, sarebbe incompatibile con il principio di negoziabilità che governa il concordato preventivo (e, ancor di più, l’accordo di ristrutturazione dei debiti), con la conseguenza che il Tribunale non dovrebbe potere sostituirsi, omologando coattivamente un concordato o un accordo di ristrutturazione del debito laddove la maggioranza dei creditori abbia espresso il relativo diniego.
Cram down: cos’è, normativa di riferimento ed alcune considerazioni in merito
Nell’ambito di tale orientamento restrittivo, ad avviso di chi scrive, bisogna poi comunque dare rilievo alla distinzione tra atti di rigetto privi di motivazione ed atti di diniego adeguatamente motivati, laddove (questo sì) solo gli atti di diniego privi di motivazione potrebbero essere disapplicati dal Tribunale.
E questo anche considerato che la stessa Agenzia delle Entrate, con Circolare n. 34E/2020, ha fornito istruzioni ai propri funzionari per cui “l’eventuale diniego da parte dell’Ufficio dovrà necessariamente essere corredato da una puntuale motivazione, idonea a confutare analiticamente, in base ad elementi chiari, oggettivi e verificabili, le argomentazioni e le conclusioni”.
Tale interpretazione della norma è del resto coerente anche con quanto indicato nella Relazione Illustrativa del Dlgs. n. 14/2019, secondo cui la predetta norma è stata introdotta “al fine di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi” (resistenze dell’Erario, ovviamente).
È fuori di dubbio che tali “resistenze” possono concretizzarsi sia quando l’Ente ritardi irragionevolmente nei tempi di risposta alla proposta, sia nell’ipotesi in cui la rigetti espressamente, ma senza motivazione.
Ma certamente non possono essere considerate “ingiustificate resistenze” quelle che si sostanzino in una (condivisibile o meno) motivazione, espressione del potere amministrativo, a cui neppure il giudice può sostituirsi.
Solo l’estensione del cram down all’ipotesi di diniego di adesione non motivata da parte dei creditori pubblici potrebbe dunque realizzare un ragionevole equilibrio tra le esigenze di tutela dell’Amministrazione e le esigenze di tutela degli altri interessi rilevanti, con particolare riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza, ex art. 3 Cost. e di efficienza della Pubblica Amministrazione, ex art. 97 Cost.
Solo in caso di inerzia o dissenso non motivato è infatti “giusto” delegare, in via sostitutiva, la valutazione al Tribunale in sede di omologazione, così consentendo il superamento del possibile pregiudizio rispetto alla realizzazione del migliore interesse pubblico.
Ma se tale valutazione è avvenuta ed è avvenuta in modo motivato come si può delegare tale potere sostitutivo?
In conclusione, giova evidenziare che un’interpretazione estensiva dell’applicazione del cram down non sembra compatibile con i principi, anche costituzionali, di separazione dei poteri dello Stato (cfr., Tribunale di Bari del 18 gennaio 2021).
E una interpretazione contraria potrebbe senz’altro richiedere il rinvio della norma alla Corte Costituzionale.
Il potere-dovere di opporsi al cram down da parte dell’Amministrazione finanziaria presenta del resto profili di discrezionalità amministrativa, laddove l’Amministrazione è chiamata ad effettuare una complessa serie di valutazioni, tra cui anche la comparazione del risultato ottenibile all’esito della transazione con il minor gettito che deriverebbe dal fallimento dell’impresa, pervenendo, in ossequio del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., ad una ricostruzione il più oggettiva possibile della dimensione qualitativa e quantitativa del presupposto onde garantire il giusto riparto.
Nell’esercizio di tale potere discrezionale, l’Amministrazione finanziaria deve quindi effettuare un contemperamento tra il primario interesse pubblico alla puntuale applicazione del tributo e altri interessi extrafiscali, al fine di adottare delle soluzioni che, pur nel rispetto dei principi di legalità e riserva di legge, tutelino, seppur in misura minore, un interesse erariale, che, con tutta evidenza, non sarebbe in toto soddisfabile in considerazione dello stato di crisi del contribuente.
Come detto, l’unico modo per contemperare i distinti interessi e rispettare il dettato costituzionale è allora aderire ad una via mediana tra interpretazione restrittiva ed estensiva, “pretendendo” che, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, l’Amministrazione dia comunque conto della motivazione del dissenso, distinguendo, quindi, tra atti di rigetto privi di qualsivoglia motivazione ed atti di diniego adeguatamente motivati, laddove, come detto, solo gli atti di diniego privi di motivazione potrebbero essere “superati” dal Tribunale tramite il cram down.
Non dobbiamo peraltro dimenticare che, nel caso dei debiti tributari, intervengono anche altri principi costituzionali, non presenti invece in riferimento ai crediti non tributari.
In campo amministrativo e civilistico vi è infatti un bilanciamento di interessi diverso da quello tributario, dove bisogna tenere conto degli specifici principi costituzionali che presiedono al prelievo tributario e in particolare del principio in base al quale tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva (art. 53, Cost.).
Nella fattispecie in esame, oltre agli interessi della società, vanno dunque tenuti in considerazione anche quelli alla cui tutela è ex lege demandata l’Amministrazione finanziaria, con una valutazione (ed espressione di voto) caratterizzata da discrezionalità, laddove la posizione del richiedente il concordato è una posizione (di interesse legittimo), da tutelarsi tramite la verifica che l’esercizio del potere di adesione o meno si esplichi in modo ragionevole e non arbitrario.
Da qui la necessità che l’eventuale dissenso sia specificatamente motivato e che, se non motivato, il giudice si possa sostituire al creditore pubblico tramite l’omologa “forzosa”.
Ma se il dissenso è motivato la sostituzione, pena il sovvertimento della separazione dei poteri, non sembra in realtà nè possibile, né opportuna.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Cram down: cos’è, normativa di riferimento e interpretazione