Società a ristretta base azionaria e prova della destinazione degli utili extracontabili

Giovambattista Palumbo - Società di capitali

La prova della destinazione degli utili in caso di accertamento nella società a ristretta base azionaria

Società a ristretta base azionaria e prova della destinazione degli utili extracontabili

Esiste un’ampia giurisprudenza tributaria e societaria che più volte è intervenuta in materia di prova della destinazione degli utili in caso di società a ristretta base azionaria.

Nel caso pratico che analizzeremo oggi insieme - tratto dalla datata ma sempre attuale ordinanza della Corte di Cassazione n. 24732/2022 - la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal contribuente avverso un avviso di accertamento concernente redditi relativi alla sua qualità di socio al 97per cento di una S.r.l, società che, a sua volta, era stata sottoposta ad accertamento di maggiori ricavi non dichiarati per l’anno 2004.

Il contribuente aveva evidenziato, nel proprio ricorso, che anche la società aveva proposto impugnazione avverso il predetto avviso di accertamento e che esso era stato parzialmente accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale, per cui detta decisione doveva avere effetto anche nei confronti del socio.

I giudici di primo grado ritenevano di condividere l’assunto relativo alla rideterminazione delle quote di utili percepite dal socio e decidevano nel senso di recepire integralmente i contenuti della sentenza relativa alla società, accogliendo dunque parzialmente (nella medesima misura) il ricorso del socio.

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Società a ristretta base azionaria e prova della destinazione degli utili extracontabili

Avverso questa decisione proponeva appello l’Agenzia delle Entrate, che, nel merito, reiterava l’argomentazione relativa al fatto che nel PVC e nel conseguente avviso di accertamento si contestava l’annotazione nei registri IVA di fatture di acquisto per un importo complessivo di 6.427.548,40 euro, ritenute oggettivamente inesistenti in quanto emesse da società considerate “cartiere”.

La Commissione Tributaria Regionale accoglieva il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, confermando così l’avviso di accertamento impugnato.

Avverso tale sentenza il contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, lamentando la nullità della sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed in specie dell’art. 295 cod. proc. civ., in tema di sospensione del giudizio.

Con un secondo motivo di impugnazione, il contribuente deduceva poi la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ed in specie dell’art. 83 Dpr. 29 settembre 1973, n. 600, e degli artt. 2727 e 2729 cod. civ.

Secondo la Suprema Corte la prima censura era, nelle more, divenuta inammissibile.

Con essa, infatti, il contribuente lamentava l’error in iudicando nella parte in cui la Commissione Tributaria Regionale non aveva sospeso il procedimento ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., laddove la società (dalla cui posizione derivava anche la contestazione a carico del socio) aveva già proposto ricorso per cassazione avverso la sfavorevole sentenza di secondo grado, all’epoca pendente.

I giudici di legittimità evidenziano che la stessa Corte (Cass. 26/01/2021, n. 1574), sul punto, ha statuito che, in tema di redditi da partecipazione in società di capitali a base ristretta, ogniqualvolta vi sia pendenza separata di giudizi relativi all’accertamento del maggior reddito contestato alla società di capitali e di quello di partecipazione conseguentemente contestato al singolo socio, si impone, in effetti, la sospensione ex art. 295 cod. proc. civ., applicabile anche al giudizio tributario in forza dell’art. 1, comma 2, del Dlgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza emessa nei confronti della società, costituente l’antecedente logico giuridico non solo nelle ipotesi di controversie su contestazioni di utili extracontabili ma in tutti i casi di contestazioni rivolte alla compagine sociale relativi ai maggiori redditi derivanti da ricavi non dichiarati o da costi non sostenuti.

Nel caso di specie, però, il ricorso per cassazione proposto dalla società era stato nel frattempo deciso, con sentenza che lo aveva rigettato.

Pertanto, la censura era divenuta inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Anche il secondo motivo di impugnazione, poi, secondo la Cassazione, era inammissibile e comunque infondato.

Rileva a tal proposito la Corte che, con esso, il contribuente lamentava l’error in iudicando nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto che il maggior reddito accertato a carico della società di capitali costituisse il fatto noto idoneo a consentire di presumere induttivamente ex art. 2727 cod. civ. il fatto ignoto, concernente l’avvenuta ed effettiva distribuzione dei relativi utili in capo ai soci in misura perfettamente proporzionale alle rispettive quote di partecipazione sociale.

Società a ristretta base azionaria e prova della destinazione degli utili extracontabili: la posizione della Corte di Cassazione

Affermano i giudici, che l’Ufficio era correttamente partito dal dato oggettivo del riscontro di utili non contabilizzati, derivanti dall’attività di impresa di una società a ristretta base sociale, deducendo che tali utili si dovessero presumere distribuiti ai soci in proporzione alle quote dagli stessi detenuti.

Soci a cui incombeva, semmai, la prova della loro diversa destinazione.

La sentenza impugnata si collocava nel solco di un consolidato orientamento di legittimità, in base al quale l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittima la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria, dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti (ex plurimis, Cass. 20/12/2018, n. 32959, Cass. 07/12/2017, n. 29412).

Una volta accertato il maggior reddito di una società a ristretta base partecipativa, lo stesso reddito si presume quindi distribuito pro quota ai soci in forma di utili extracontabili, poiché la ristrettezza dell’assetto societario implica, normalmente, reciproco controllo e solidarietà tra i soci (così Cass. 24/01/2019, n. 1947, Cass. 29/07/2016, n. 15824, Cass. 28/11/2014, n. 25271).

La Commissione Tributaria Regionale, nella specie, aveva pertanto, sul punto, motivato congruamente, affermando proprio il principio della presunzione della distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati a carico di una società di capitali a ristretta base partecipativa, unitamente all’argomentazione relativa alla importante quota di partecipazione del contribuente (97 per cento) e alla mancata produzione di qualsivoglia elemento atto a dimostrare che la distribuzione al socio non fosse avvenuta, a causa, ad esempio, di accantonamento o reinvestimento da parte della società.

In generale e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova poi anche evidenziare quanto segue.

In materia di accertamento tributario di un maggior reddito nei confronti di una società di capitali, organizzata nella forma della società a responsabilità limitata ed avente ristretta base partecipativa, e di accertamento conseguenziale nei confronti dei soci, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi notificati ai soci è soddisfatto anche mediante rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società, anche se solo a quest’ultima notificato.

Il socio, infatti, ex art. 2476 cod. civ., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi (cfr., Cass., 2/10/2020, n. 21126; Cass., 28/11/2014, n. 25296; Cass., 4/06/2018, 14275; Cass., 18/02/2020, n. 3980, e, da ultimo, Cass. n. 4239 del 2022).

Nella presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, il fatto noto, che sorregge la distribuzione degli utili extracontabili, non è infatti costituito dalla sussistenza di questi ultimi, ma proprio dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci, che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass., 19 marzo 2015, n. 5581).

L’accertamento nei confronti del socio è comunque formalmente indipendente da quello svolto nei confronti della società, costituendo quest’ultimo unicamente il presupposto di fatto, ma non la condizione dell’accertamento nei confronti del socio stesso, con la conseguenza che, ad esempio, anche il vizio di notifica attinente all’avviso di accertamento emesso nei confronti della società non impedisce l’accertamento nei confronti del socio (cfr., Cass., n. 39285 del 2021).

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 29794 del 25 ottobre 2021, come detto, ha comunque affermato che la prova contraria che i soci possono fornire può consistere nel fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma sono stati accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti.

La presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio può essere inoltre vinta dimostrando l’estraneità del socio alla gestione societaria.

Sempre in tema di ricostruzione induttiva degli utili extracontabili in caso di società a ristretta base azionaria, ancora la Cassazione, con la Sentenza n. 2224 del 02 febbraio 2021, ha infine chiarito un rilevante profilo attinente ai costi indeducibili della società(e non solo ai ricavi non dichiarati).

Afferma la Corte che i costi costituiscono in tutti i casi un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché, quando essi sono “fittizi” o “indeducibili”, scatta comunque la presunzione che il medesimo reddito è maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio.

Tale principio trova dunque applicazione anche nelle società a ristretta base partecipativa, quando la società abbia indicato in bilancio dei costi inesistenti, o indeducibili perché non documentati. In tale ipotesi, infatti, il reddito maggiorato (dei costi inesistenti o indeducibili) si presume sia stato distribuito nel corso del medesimo esercizio ai soci.

I costi indeducibili, quale che sia la ragione di tale indeducibilità, infatti non possono essere considerati nel passivo del conto economico del bilancio, che, per il principio di derivazione di cui all’art. 83 TUIR, è alla base del bilancio fiscale.

Pertanto, eliminate le poste indeducibili dal passivo del conto economico, ne scaturisce inevitabilmente, a parità dei ricavi già contabilizzati, un aumento del reddito di impresa e maggiori imposte a carico della società e, quindi, dei soci.

In definitiva, può parlarsi di distribuzione di utili non solo in presenza di maggiori ricavi in nero, ma anche laddove siano stati accertati costi non deducibili.

La ristretta compagine sociale determina, in sostanza, in tutti tali casi, un’inversione dell’onere della prova a carico del socio.

I maggiori utili contestati in questi casi ai soci si presumono infatti derivare da utili conseguiti dalla società in evasione di imposta e, dalla parte del socio, costituiscono redditi di capitale che il contribuente non ha fatto concorrere alla determinazione del proprio reddito complessivo.

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