L'estensione dell'imposta sui servizi digitali e l'innalzamento al 42% della ritenuta sulle plusvalenze relative alla cripto attività, ove confermate, rischiano di dare un colpo mortale all'evoluzione del settore digitale italiano
Nella bozza della Legge di Bilancio 2025 ci sono due ipotesi di norme - imposta sui servizi digitali e aumento delle plusvalenze sulle cripto attività dal 26 al 42% - che sono incomprensibili e rischiano di dare un colpo mortale al futuro sviluppo dell’ecosistema digitale italiano.
Partiamo dalla prima: qui c’è un paradosso fantozziano di proporzioni cosmiche. La norma nasce nel 2018, su proposta della Commissione Europea agli Stati membri, al fine di riuscire finalmente a tassare in modo corretto le multinazionali operanti nel digitale. Ne conoscete tante di italiane o europee...? Il famoso commissario economico UE dell’epoca, il francese Pierre Moscovici, si preoccupò in più fasi di tranquillizzare i partner statunitensi: non si tratterà di un’imposta GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple).
L’Italia introduce questa imposta con la Legge di Bilancio 2019.
L’Imposta sui servizi digitali (ISD) si applica - sino ad oggi - con aliquota del 3 per cento sui ricavi derivanti dalla fornitura dei servizi relativi a:
- pubblicità online (veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia);
- servizi di intermediazione tra utenti (messa a disposizione di un’interfaccia digitale
multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi); - trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
A legislazione vigente, sono soggetti al pagamento della ISD gli esercenti attività d’impresa, residenti e non residenti che, nel corso dell’anno solare precedente a quello in cui sorge il presupposto impositivo, superino, singolarmente o a livello di gruppo, una duplice soglia di ricavi:
- ricavi totali (di qualunque natura) globali non inferiori a euro 750.000.000;
- ricavi imponibili (derivanti da servizi digitali) in Italia non inferiori a euro 5.500.000.
La norma in bozza della Legge di Bilancio 2025 prevede la rimozione di tali limiti, determinando un ampliamento della platea dei contribuenti.
Lo fa senza nessuna esigenza di cassa reale: gli introiti attesi, peraltro calcolati in modo opinabile come si può leggere dalla relazione tecnica al provvedimento, sono solo 51,6 milioni di euro! Avete capito bene, tutto questo intervento per soli 51,6 milioni di euro (lo 0,0063% circa della spesa pubblica del nostro Paese...).
Lo fa non capendo che questo genererà confusione, preoccupazione e contenziosi nel settore digitale:
- molti grandi player nazionali potrebbero preferire spostarsi all’estero;
- molti grandi player esteri potrebbero non voler più investire in Italia.
E questo non per la questione del 3% in sé e per sé, ma anche perché la norma non era scritta bene sin dall’origine.
Si pensi solo al fatto che, secondo un datato provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, a mio avviso non condivisibile, anche una realtà editoriale digitale potrebbe essere soggetta a questa imposta. Ma immaginate il tipo di confusione che si potrebbe creare in futuro? E la tutela del settore editoriale (che ormai è prevalentemente digitale)? La tutela dei settori innovativi e tecnologici?
E ancora: la ratio legis è totalmente stravolta!
La web tax italiana, ma soprattutto la proposta di web tax europea, ha come obiettivo fondamentale quella di evitare che le grandi multinazionali del web, le OTT, sfuggano al fisco nazionale, producendo valore qui ma non contribuendo alle Casse dell’Erario.
Con questa modifica normativa questi soggetti non verrebbero minimamente toccati!
Ad essere chiamate in causa sarebbero le piccole e medie imprese italiane operanti nel settore digitale! Ciò quelle che potrebbero generare quell’idea innovativa che un domani potrebbe fare la differenza e, magari (sognare non fa mai male), portare alla creazione di uno spazio digitale di matrice italiana e/o europea, magari un nuovo grande motore di ricerca o un nuovo sistema di intelligenza artificiale.
Tanto è vero che già oggi sono spuntati i primi emendamenti con le proposte di modifica e superamento della norma proposta.
Riporto qui, quanto scrive Marco Lenoci, CEO di Evolution Group ed ex Global head of AI Product Partnerships di Google:
“In quanto non americani, la domanda che dobbiamo porci è più ampia della ricerca e ha più a che fare con la politica occidentale che con il business.
Quale ruolo vogliamo svolgere nel futuro della tecnologia?
Oltre agli Stati Uniti e alla Cina, non c’è un singolo paese (per non parlare dell’Unione Europea) che agisca collettivamente per alimentare un ecosistema tecnologico decente che avrebbe qualche possibilità di competere con le aziende americane.
Nella mia mente, questa è la vera sfida che dobbiamo affrontare e mi dispiace dirlo, ma è una sfida che non può essere risolta da alcuna autorità di regolamentazione”
Non vorrei con questa citazione allargare troppo il tema, anzi rischiare di andare proprio fuori tema. Però il rischio me lo assumo per dire che non si può continuare con provvedimenti di legge contraddittori, disorganici e, addirittura, minimamente convenienti per lo stesso Stato che li emana. Perché il ruolo nel futuro della tecnologia che può assumere un Paese che ragiona così semplicemente non c’è, perché non ci sarà nessun futuro.
Si stanno creando tutte le condizioni per allontanare gli investitori e rendere impossibile fare impresa in un settore così strategico per l’economia di un Paese moderno. Un settore che al suo interno ha di tutto: innovazione, tecnologia, intelligenza artificiale, informazione, formazione e intrattenimento.
Leggendo poi la relazione tecnica le perplessità invece che ridursi - come ci si dovrebbe attendere da un documento che ti dovrebbe spiegare il perché e il per come delle cose - aumentano a dismisura:
La disposizione in esame prevede la rimozione di tali limiti, determinando un ampliamento della platea dei contribuenti.
È plausibile ritenere che la rimozione della sola soglia dei ricavi imponibili in Italia non determini un ampliamento della base imponibile dell’imposta, in quanto si ritiene improbabile che, date le significative dimensioni del mercato italiano, i grandi gruppi societari non raggiugano tale soglia di ricavi.
Si segnala, inoltre, che la soglia di 5,5 milioni di euro non opera come franchigia rispetto alla base imponibile, ma rileva ai soli fini dell’individuazione dei soggetti passivi dell’imposta.
Diversamente, la rimozione della soglia di 750 milioni di euro di ricavi globali potrebbe determinare, in linea di principio, un ampliamento della base imponibile per effetto dell’inclusione dei ricavi imponibili realizzati in Italia da soggetti, residenti e non residenti, che con un volume d’affari in Italia superiore ai 5,5 milioni di euro, sebbene inferiore a 750 milioni di euro a livello globale.
Secondo gli ultimi dati disponibili relativi all’anno di riferimento 2022, oltre il 62 per cento dell’imposta dichiarata è dovuta in relazione ai servizi di veicolazione di pubblicità online.
Della restante parte, circa il 37 percento è dovuto sui ricavi da servizi di intermediazione tra utenti, mentre risulta trascurabile la quota di imposta dovuta rispetto ai servizi di trasmissione dati
Dal testo sopra, preso paro paro dalla relazione tecnica, si evincono due cose:
- la conferma dello stravolgimento della spirito della norma, tassare le multinazionali del web, in particolare le OTT, attraverso un ampliamento della platea dei contribuenti;
- la conferma che chi ha scritto questa norma non ha compreso gli effetti che produrrà sull’economia del Paese.
La situazione diventa drammatica leggendo la parte successiva della relazione.
Sostanzialmente il concetto - ve lo sintetizzo perché immagino che dopo due righe di lettura cesserete di leggere - è il seguente: so che il mercato pubblicitario online è dominato dalle OTT, non ho immaginato altri modi per far concorrere loro in modo giusto alle entrate fiscali e quindi allargo al massimo possibile la platea dei soggetti passivi dell’imposta sui servizi digitali. Andando a colpire anche le piccole e media imprese italiane. Tanto, alla fine un effetto positivo ce l’ho: 51,6 milioni di euro. Per tutto il resto si vedrà...
Ecco il passaggio che vi ho sintetizzato sopra:
“In ragione della quota più che maggioritaria dei ricavi pubblicitari nella composizione della base imponibile dell’imposta, ai fini della valutazione dell’eventuale allargamento della platea, risulta essenziale determinare il valore del mercato pubblicitario italiano.
Le principali statistiche disponibili sulle dimensioni del mercato pubblicitario italiano sono realizzate dall’AGCOM nell’ambito delle proprie attività istituzionali.
Secondo i dati riportati nella Relazione annuale 2023 al Parlamento, il mercato della pubblicità online in Italia ha registrato una notevole crescita negli ultimi anni: i ricavi dalla vendita di pubblicità online sono passati da circa 3 miliardi di euro nel 2018 a circa 5,3 miliardi di euro nel 2021 e 5,9 miliardi nel 2022.
Oltre l’85 per cento dei ricavi della pubblicità online è attribuibile alle principali piattaforme internazionali, anche nel mercato italiano, che risultano gestire
una quota sempre maggiore del mercato pubblicitario, a detrimento degli editori tradizionali e digitali più piccoli.Nel database commerciale Orbis-BvD sono stati identificati i soggetti residenti attivi nel settore pubblicitario che presentano ricavi non superiori a 750 milioni di euro singolarmente o a livello di gruppo, da includere nel perimetro di applicazione della norma.
Al fine di isolare la sola parte dei ricavi riconducibili alla vendita di pubblicità online, è stata utilizzata la quota, pari al 57%, del valore della pubblicità online rispetto al valore complessivo della raccolta pubblicitaria stimata dall’AGCOM.
Infine, si è ipotizzato che, anche nel mercato degli operatori più piccoli, sia rinvenibile la composizione dei servizi offerti osservata nella platea dei soggetti di maggiori dimensioni che già versavano l’imposta (62% pubblicità online, 38% servizi di intermediazione tra utenti). (questo aspetto sarebbe peraltro tutto da approfondire e verificare nel merito delle variegate realtà nazionali, NdR)
Sulla base della metodologia sopra riportata, si stima che il recupero di gettito per il settore della pubblicità (62%) sia di circa 32 milioni di euro.
Riproporzionando tale importo ai ricavi di tutti i settori incisi dall’imposta, si stimano maggiori entrate annue di competenza pari a circa 51,6 milioni di euro, a decorrere dal 2025”.
Sulle cripto attività l’approccio è ancora più tafazziano.
Il comma 2 dell’articolo 4 della Legge di Bilancio 2025 prevede l’innalzamento della tassazione delle plusvalenze e dei proventi derivanti dalle operazioni in cripto-attività, prevista a legislazione vigente con l’applicazione della ritenuta del 26%, con una soglia di esenzione di 2.000 euro, nella misura del 42%.
Una violazione palese del principio di uguaglianza.
Dai dati di monitoraggio risulta un gettito annuo di 27 milioni di euro.
Dall’applicazione dell’aliquota del 42% si stima derivi un maggior gettito di circa 16,7 milioni di euro su base annua.
Cioè per 16,7 milioni di euro, adesso che il sistema tributario italiano stava iniziando a far emergere e normalizzare tante situazioni, che rischi si prenderà l’economia?
Proviamo ad elencarli:
- introduzione di una norma che sarebbe (forse) anche incostituzionale: come si può giustificare una distinzione tra gli investimenti diretti in cripto-attività, tassati al 42%, e gli investimenti indiretti tramite fondi d’investimento (Etf, Etp, Etc, ecc.) e strumenti derivati che rimarrebbero al 26%?!
- discriminazione degli italiani che investono su piattaforme iscritte all’OAM, che sono soprattutto giovani investitori;
- spinta indiretta verso operatori opachi o, peggio ancora, non autorizzati;
- disincentivo alle realtà aziendali italiane protagoniste dell’industria dei servizi cripto;
- danni incalcolabili sul futuro dell’indotto del settore (informatica, crittografia, diritto digitale).
A pensar male si fa peccato ma, come diceva qualcuno spesso... Io non voglio fare peccato ma ho letto da più fonti autorevoli che la (bozza di) norma sulle cripto attività potrebbe essere letta alla luce di quella sulle DTA bancarie, facendo pensare ad una sorta di compromesso con le banche per consentire allo Stato di ottenere un anticipo sulla liquidità di 3,5 miliardi.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Imposta sui servizi digitali e cripto attività: così l’Italia si farà male