Imposta sui servizi digitali: al centro dei chiarimenti delle entrare la questione della tassazione del servizio di veicolazione di pubblicità mirata, da intendersi come quel servizio specifico delle interfacce digitali che trasferiscono su siti di terzi o ospitano pubblicità mirata, percependo un corrispettivo per tale intermediazione o per tale prestazione.
L’Agenzia delle Entrate ha recentemente chiarito alcuni profili operativi in tema di imposta sui servizi digitali, trattando, nello specifico, la questione della tassazione del servizio di veicolazione di pubblicità mirata, da intendersi come quel servizio specifico delle interfacce digitali che trasferiscono su siti di terzi, o ospitano pubblicità mirata, percependo un corrispettivo per tale intermediazione o per tale prestazione.
Nel caso di specie, la società istante ALFA, facente parte dell’omonimo Gruppo, oltre all’attività di direzione e coordinamento delle società controllate e di offerta dei servizi centralizzati, era impegnata anche nella fase editoriale di produzione e commercio di giornali, quotidiani, periodici, libri e servizi editoriali del Gruppo.
Tra le attività svolte da ALFA, rientrava anche la cessione di spazi pubblicitari online, da cui ritraeva ricavi distinti in base a:
- A) Tipologia di targeting, potendosi nello specifico riscontrare:
- i) pubblicità non oggetto di profilazione;
- ii) pubblicità associata all’utente specifico che consulta l’interfaccia, profilato in base a informazioni dallo stesso fornite;
- iii) pubblicità associata ai contenuti presenti sulla stessa e non ai dati relativi all’utente;
- B) Controllo da parte dell’editore (ossia ALFA), o dell’inserzionista, della tipologia di targeting applicata;
- C) Canali di vendita, differenziati in:
- a. Tradizionale (c.d. “classic”), in cui la negoziazione avveniva direttamente tra ALFA (o i suoi agenti) e l’inserzionista (o i suoi agenti). In tal caso, l’istante aveva il controllo sull’eventuale processo di profilazione dell’utente.
- b. Programmatic, in cui la compravendita degli spazi pubblicitari era intermediata dall’utilizzo di piattaforme digitali. Nello specifico, l’incontro di domanda e offerta avveniva tramite piattaforme tecnologiche, a cui gli inserzionisti e gli editori non accedevano direttamente, ma attraverso intermediari specializzati. In relazione al canale programmatic, a seconda della strategia di vendita, la pubblicità poteva poi ulteriormente dividersi in:
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- 1) “Deals” (o “programmatic direct”), ossia accordi conclusi direttamente tra editore e inserzionisti, analogamente a quanto avviene nella vendita tradizionale, ma con la differenza che le parti si avvalevano di piattaforme tecnologiche per la negoziazione.
- 2) “Open Auction” (o “Open Market”), ossia una modalità di compravendita di spazi pubblicitari on line attraverso un meccanismo di offerta ad asta in tempo reale, in cui ALFA non aveva alcun rapporto con gli inserzionisti. La pubblicità oggetto di “Open Auction” era generalmente basata su profilazione, ma l’istante dichiarava di non essere in grado di conoscere se tale profilazione si basasse sui dati dell’utente, o sul contenuto della pubblicità stessa.
- ALFA, inoltre, osservava che, nell’ambito dei criteri di targeting, tra i dati relativi agli utenti che potevano essere utilizzati vi era anche la geolocalizzazione, laddove, in particolare, i dati sulla geolocalizzazione potevano essere forniti volontariamente dallo stesso utente, ovvero potevano essere ricavati in via automatica dall’Internet Service Provider (ISP), tramite il quale l’utente accede alla rete internet.
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Tanto premesso sul tipo di attività, i dubbi interpretativi prospettati dall’istante riguardavano l’applicazione, al caso di specie, dell’imposta sui servizi digitali, regolata dall’articolo 1, commi da 35 a 50, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, anche alla luce del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 15 gennaio 2021, che detta le regole operative per l’applicazione dell’Imposta, e dei chiarimenti resi nella Circolare 23 marzo 2021, n.3/E.
Domande e risposte su imposta sui servizi digitali e pubblicità mirata
Nello specifico, i dubbi interpretativi riguardavano l’applicabilità dell’Imposta sui servizi digitali ai ricavi derivanti dalla:
- 1) pubblicità programmatic, ponendosi il dubbio in ragione del fatto che ALFA non disponeva sempre del controllo dei criteri di targeting utilizzati nella compravendita degli spazi pubblicitari;
- 2) pubblicità riferita alla geolocalizzazione dell’utente, quando la stessa era basata unicamente sui dati forniti dall’ISP, attenendo in tal caso l’incertezza interpretativa alla minore accuratezza del dato rispetto a quello fornito, consapevolmente o non consapevolmente, dall’utente.
Secondo l’istante, quanto al primo quesito, l’imposta doveva essere applicata unicamente ai ricavi che derivavano dalla cessione di spazi pubblicitari attraverso modalità di vendita che consentissero di appurare se la pubblicità era basata o meno su una forma di profilazione dell’utente.
A parere di ALFA, tale riscontro poteva essere effettuato solo nell’ambito della pubblicità Programmatic Guaranteed, in cui l’istante controllava il processo di targeting. Diversamente, nell’ambito dei canali Preferred Deals e Open Auction, le compravendite avvenivano attraverso modalità che non consentivano ad ALFA di verificare se la pubblicità fosse connotata da una qualche forma di profilazione, e, in caso affermativo, di quale tipo.
I ricavi derivanti da questi ultimi canali di vendita, quindi, secondo la società, dovevano essere esclusi dalla base imponibile dell’Imposta sui servizi digitali, laddove, a supporto di tale tesi, l’istante osservava anche che nella nozione di pubblicità mirata, come chiarita nella Circolare citata, rientrano esclusivamente i messaggi pubblicitari che sfruttano i dati personali degli utenti, mentre sono esclusi quelli connessi ai contenuti presenti sull’interfaccia.
Ciò in quanto l’imposta è volta a colpire l’extra-valore derivante dalla personalizzazione della pubblicità in funzione delle caratteristiche di ciascun soggetto che accede all’interfaccia e che si traduce in un incremento dei ricavi derivanti dalla cessione di spazi pubblicitari da parte dell’editore.
Nel caso dei canali Preferred Deals e Open Auction, l’editore (ALFA) non aveva tuttavia contezza dell’uso di criteri di targeting basati sui dati personali degli utenti, con la conseguenza che non era in grado di qualificare se e quanta parte di pubblicità potesse considerarsi “mirata”.
Pertanto, a parere dell’istante, l’indistinto assoggettamento all’imposta sui servizi digitali di tutti i ricavi da pubblicità programmatic (inclusi Preferred Deals e Open Auction) si sarebbe tradotto nell’inclusione di ricavi che non integravano, in realtà, il presupposto impositivo, dando luogo anche a possibili censure di legittimità costituzionale.
In merito poi al secondo quesito, l’istante riteneva che l’Imposta sui servizi digitali dovesse essere applicata solo ai ricavi derivanti da pubblicità basata sulla geolocalizzazione individuata, facendo riferimento a dati che l’utente accettava di mettere a disposizione.
Soltanto in tal caso, infatti, si realizzava quella partecipazione dell’utente alla creazione del valore, che, come evidenziato anche nella Circolare, rappresenta l’elemento caratterizzante i servizi digitali.
I ricavi derivanti da pubblicità che sfrutta la geolocalizzazione in base all’ISP, secondo l’istante, dovevano, invece, rimanere esclusi dal tributo in esame, proprio in ragione della mancanza di una partecipazione o un contributo da parte dell’utente.
In conclusione, quindi, ALFA riteneva che dovessero essere esclusi dalla base imponibile dell’Imposta sui servizi digitali i ricavi derivanti dalla pubblicità:
- programmatic, realizzata attraverso i canali Preferred Deal e Open Auction;
- basata sulla geolocalizzazione da ISP.
I chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate sui servizi digitali e pubblicità mirata
Tanto premesso, l’Agenzia delle Entrate, prima di rispondere ai quesiti posti, richiama il dettato normativo e di prassi di riferimento, rilevando che l’imposta sui servizi digitali è stata introdotta dall’articolo 1, commi da 35 a 50, della legge di bilancio 2019, come modificato dalla legge 27 dicembre 2019, n. 160 e che le modalità applicative dell’imposta sono state poi ulteriormente disciplinate dal citato Provvedimento del 15 gennaio 2021, oltre che oggetto di chiarimenti interpretativi resi con la menzionata Circolare 3/2021.
L’ambito di applicazione soggettivo del tributo, ricorda l’Amministrazione finanziaria, è caratterizzato da un duplice criterio identificativo: lo svolgimento di attività d’impresa e il contestuale superamento di due soglie dimensionali.
Riguardo a tale ultimo requisito, il comma 36 della norma primaria, replicato nel punto 1, lettera b) del Provvedimento, richiede che l’esercente l’attività d’impresa, singolarmente o a livello di gruppo, nell’anno solare antecedente a quello di determinazione della base imponibile, consegua:
- un ammontare complessivo di ricavi ovunque realizzati non inferiore a 750.000.000 euro (c.d. «prima soglia»); e
- un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali realizzati nel territorio dello Stato non inferiore a 5.500.000 euro (c.d. «seconda soglia»).
Una volta riscontrata la qualifica di soggetto passivo del tributo, la base imponibile è dunque costituita dai ricavi derivanti dai servizi digitali, individuati dal comma 37, articolo 1, della normativa primaria, laddove, nello specifico, si considerano servizi digitali rilevanti ai fini dell’ISD:
- a) la veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia;
- b) la messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi;
- c) la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
La qualificazione di un servizio come digitale, evidenzia l’Agenzia delle Entrate, rileva del resto sia ai fini del riscontro del superamento della seconda soglia, sia ai fini della determinazione della base imponibile.
Tanto premesso, venendo quindi alla fattispecie rappresentata, il servizio reso da ALFA, secondo l’Agenzia delle Entrate, era riconducibile a quello di veicolazione di pubblicità mirata.
Infatti, come disposto dal Provvedimento citato, per “veicolazione” s’intende quel servizio specifico delle interfacce digitali, che trasferiscono o ospitano su siti di terzi pubblicità mirata, percependo un corrispettivo per tale intermediazione o per tale prestazione.
E come ulteriormente precisato nella citata Circolare, l’attività di veicolazione include anche la cessione di spazi pubblicitari da parte dei cosiddetti publisher (tra i quali rientrava anche la società istante).
Con riferimento pertanto al primo quesito, l’Agenzia delle Entrate osserva che, nell’ambito della compravendita di spazi pubblicitari, la stessa Circolare prende in considerazione proprio l’ipotesi del programmatic advertising, in cui la cessione non avviene direttamente tra editore e inserzionisti ma avvalendosi di diversi intermediari, secondo schemi negoziali e modalità tecnologiche in continua evoluzione.
Più precisamente, nella Circolare si chiarisce che la veicolazione, intesa nell’accezione di pubblicità “ospitata”, richiede che l’utente (consumatore o impresa) acceda con il proprio dispositivo all’interfaccia digitale ove la pubblicità mirata è ospitata (es: sul sito del publisher) per apparire sul dispositivo dell’utente stesso.
Quando, inoltre, vi è anche veicolazione intesa quale intermediazione, è necessaria la ulteriore presenza di un’interfaccia digitale (o anche più di una), ove accedono gli utenti (ossia l’acquirente ed il venditore, in conto proprio o in conto terzi, della pubblicità mirata). La Circolare menziona a tal proposito proprio il caso (analogo a quello oggetto della istanza) in cui, nella veicolazione di pubblicità mirata, intervengono più soggetti.
L’esistenza di una pluralità di operatori coinvolti nella veicolazione della pubblicità mirata non consente dunque, di per sé, di escluderne qualcuno dall’applicazione del tributo, rimanendo tutti soggetti passivi dell’imposta, qualora ne integrino i presupposti.
Sul punto, del resto, la stessa Circolare chiarisce che non tutta l’attività di veicolazione della pubblicità rientra nell’ambito di applicazione della imposta sui servizi digitali, laddove la normativa primaria circoscrive l’ambito applicativo dell’imposta alle sole prestazioni che riguardano la “pubblicità mirata”, ossia i messaggi pubblicitari collocati su un’interfaccia digitale, in funzione dei dati relativi a un utente che accede a tale interfaccia.
Applicando quindi tali principi al caso di specie, la circostanza che ALFA non avesse il controllo della profilazione dell’utente nell’ambito dei canali Preferred Deal e Open Auction non valeva, ex se, ad escludere che la prestazione riguardasse comunque pubblicità mirata.
Tale circostanza, infatti, conclude l’Amministrazione finanziaria, prescinde dalla immediata consapevolezza in capo all’editore dello sfruttamento dei dati inerenti agli utenti, riguardando piuttosto la circostanza, oggettiva, che i messaggi pubblicitari siano o meno profilati rispetto ai soggetti che accedono all’interfaccia.
Stante la necessità di verificare se il servizio offerto dal publisher è qualificabile quale veicolazione di pubblicità mirata, le informazioni sulla profilazione dell’utente possono peraltro essere oggetto di puntuali pattuizioni negoziali, ovvero di specifica richiesta all’inserzionista che gestisce il targeting.
E le stesse informazioni possono essere acquisite, seppure in un secondo momento, per ricostruire correttamente la quota parte di ricavi derivanti da servizi digitali rilevanti ai fini dell’imposta.
In sostanza, nella fattispecie in esame, l’Agenzia delle Entrate riteneva che l’istante, in qualità di editore, rendesse un servizio digitale, ai sensi dell’articolo 1, comma 37, lettera a), della legge di bilancio 2019, in tutti i casi in cui il servizio offerto fosse oggettivamente qualificabile come veicolazione di pubblicità mirata, essendo dunque soggetto passivo d’imposta in relazione ai ricavi che ne derivavano.
L’effettiva ricorrenza di tale circostanza e l’idoneità delle misure di due diligence poste in essere dall’operatore al fine di verificare la natura della pubblicità veicolata sullo spazio da esso messo a disposizione erano poi questioni di fatto che non potevano essere riscontrate in sede di interpello.
Quanto, infine, al secondo quesito sopra rappresentato, l’Agenzia delle Entrate ricorda che nella Circolare si precisa come, nell’ambito della pubblicità mirata, rilevano i dati degli utenti che riguardano aspetti relativi alla vita degli stessi, quali preferenze, gusti, comportamenti (compresi quelli digitali, come gli acquisti o la digitazione di ricerche su motori di ricerca), nonché anche l’ubicazione geografica.
Tra gli esempi di pubblicità mirata, riportati nel documento di prassi, si cita dunque espressamente il targeting geografico, che consente di offrire annunci agli utenti in base alla loro posizione, ricavata attraverso gli indirizzi IP, l’uso di una connessione wifi e i dati GPS.
Rilevano, quindi, per la qualificazione della pubblicità come mirata (con tutte le conseguenze impositive già evidenziate), i dati sulla geolocalizzazione che siano raccolti tramite l’ISP, quali, ad esempio, l’Internet Protocol del dispositivo, a prescindere dal fatto che l’utente ne abbia consapevolezza ed indipendentemente dall’accuratezza della posizione geografica rilevata.
Inoltre, conclude l’Agenzia, la geolocalizzazione dell’utente può essere ricavata anche applicando metodi induttivi, che non garantiscono però una puntuale individuazione della posizione geografica, esponendosi a margini di approssimazione.
Non si condivideva, quindi, l’impostazione dell’istante secondo cui la geolocalizzazione poteva essere stabilita solo in base ai dati espressamente forniti dall’utente.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Imposta sui servizi digitali e pubblicità mirata