Il recente caso Red Sox, il tassista bolognese la cui auto è stata vandalizzata dopo la denuncia di evasione fiscale del settore, ha riportato in auge il tema dei controlli fiscali sui tassisti
A seguito del recente caso Red Sox, il tassista bolognese che ha pubblicato i suoi gudagni, rivelando quanto “nero” caratterizzerebbe il suo settore, si è molto discusso e si sta discutendo - e non senza polemiche - sul tema dei redditi dichiarati dai tassisti, ritenuti troppo bassi rispetto al costo medio delle licenze.
Nei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi dello scorso anno, infatti, i tassisti hanno dichiarato 15.400,00 euro in media, a fronte di licenze che hanno costi che possono arrivare a oltre 200.000 euro nelle grandi città.
Un volume di reddito così basso appare poco realistico in quanto:
- non si riuscirebbe ad ammortizzare in tempi congrui il costo della licenza;
- non si avrebbe un tenore di vita dignitoso rispetto all’importanza sociale di una figura importante come quella del tassista;
- nelle grandi città non si presenterebbero le palesi esigenze di aumentare il numero delle licenze stesse.
Le problematiche relative alla mancata dichiarazione di redditi sommersi sono legate a più elementi, anche se a dominare appare quello degli scarsi controlli: solo meno di un tassista su cento riceve un controllo fiscale all’anno.
Proprio per questo motivo, la Legge di Bilancio 2025 prevede all’articolo 10 una nuova stretta sulle spese di trasferta, che dovrebbe indirettamente consentire un maggiore recupero di evasione fiscale.
Ma quei pochi tassisti che ricevono controlli fiscali a quali verifiche vanno incontro? In altre parole, come funzionano i controlli fiscali sui tassisti? Cercheremo quindi di approfondire questi aspetti, tralasciando ogni considerazione sulla opportunità di aumentare i controlli e/o modificare le attuali regole in vigore (che sono i due punti di discussione forti di questi giorni di polemiche estive).
Con due pronunce sostanzialmente identiche, riguardanti lo stesso contribuente, per due annualità diverse la Corte di Cassazione ha affrontato recentemente la problematica relativa alla ricostruzione dei ricavi nei confronti dei taxisti, basata sui chilometri percorsi.
Pronunce che ci consentono di fare il punto sulla questione, alla luce dei diversi contributi giurisprudenziali intervenuti a seguito dei rilievi degli uffici fiscali, basati su una serie di presunzioni, che mettono in evidenza sostanzialmente la resa chilometrica.
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Controlli fiscali 2024 sui tassisti
Le controversie oggetto delle due pronunce della Corte di Cassazione n. 33706/2023 e 33570/2023 traggono origine dall’impugnazione degli avvisi di accertamento, relativi a IRPEF e IRAP, emessi nei confronti di un contribuente fiorentino eserecente l’attività di taxi.
Il contribuente ha proposto distinti ricorsi nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in accoglimento dell’appello proposto dall’Ufficio e rigettato l’appello incidentale della parte privata, aveva integralmente riformato la prima decisione favorevole al contribuente per avere annullato l’atto impositivo.
In particolare, la C.T.R. ritenute infondate le doglianze svolte nell’appello incidentale dal contribuente:
“riteneva, di contro legittimo l’atto impositivo avendo l’Ufficio proceduto correttamente alla ricostruzione dei ricavi sulla base di elementi presuntivi rispetto ai quali non era di ostacolo il rispetto dello studio di settore, attesa, peraltro, l’inattendibilità dei dati dichiarati dal contribuente.”
Il Giudice di appello, inoltre, motivava diffusamente sul perché non avesse condiviso le doglianze poste dal contribuente in ordine al criterio utilizzato dall’ufficio per ricostruire i ricavi.
Controllo fiscale sulle attività svolte dai taxi: la giurisprudenza della Corte di Cassazione
Preliminarmente gli Ermellini, richiamando dei propri precedenti (Cass., Sez. 5, ord. n. 31814/2019; Cass. Sez. 5, ord. n. 15344/2019), osservano che il fatto che l’accertamento tragga spunto da uno studio di settore non esclude che esso possa fondarsi anche su altri elementi giustificativi.
In particolare:
“un accertamento tributario può ritenersi basato sullo studio di settore soltanto quando trovi in esso il suo fondamento prevalente (Cass. Sez. 5, ord. 5/12/2019, n. 31814, cit.), situazione, questa, non ricorrente quando, come nella specie, all’esito dell’accertamento mediante studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’ente accertatore ad approfondire l’analisi, riscoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata (cfr. Cass. Sez. 5, 6/6/2019, n. 15344, cit.).”
Di conseguenza:
“la corrispondenza del reddito dichiarato agli studi di settore non impedisce all’Amministrazione finanziaria di procedere all’accertamento di maggiori redditi (Cass. Sez. 5, 14/12/2012, n. 23096; Cass. Sez. 5, 24/9/2014, n. 20060) e che, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un’operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perché basata su una contabilità complessivamente inattendibile, in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere dello stesso contribuente dimostrare la liceità̀ fiscale della suddetta operazione e il giudice tributario non può̀, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità̀della documentazione. Infatti, è consentito al fisco dubitare della veridicità̀ delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità̀ delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità̀ (Cass. Sez. 5, n. 14941/2013; Cass. Sez. 5, ord. n. 25257/2017).”
Nei casi di specie, i giudici d’appello hanno condiviso il ragionamento presuntivo condotto dall’Amministrazione finanziaria sul presupposto che una serie di elementi indiziari rendessero evidente l’inattendibilità dei ricavi registrati dal contribuente. Per gli Ermellini:
“non si è, quindi, al cospetto della fattispecie di cui all’art. 62- sexies del d.l. n. 331 del 1993, ma di un accertamento induttivo connotato da autonomia rispetto all’accertamento standardizzato, così che, non essendo configurabile una presunzione legale discendente dalla congruità e coerenza della dichiarazione rispetto agli studi di settore, una volta che venga ravvisata l’inattendibilità dei dati dichiarati, l’onere della prova contraria si sposta sul contribuente.”
Con riferimento ai caratteri della gravità, precisione e concordanza che devono connotare necessariamente le presunzioni, “la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”” (così Cass. Sez. 3, n. 19485/2017; cfr. anche Cass. Sez. L, n. 29635/2018; Cass. Sez. 3, n. 1163/2020).
Infatti:
“per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola dell’inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (così Cass. Sez. 3, n. 17457/2007, cit., in senso analogo, più di recente, Cass. Sez. 2, n. 3513/2019; Cass. Sez. 2, n. 22656/2011).”
Si ritiene, dunque, che il giudice possa “trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza”, dovendosi solo escludere “che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici” (Cass. Sez. 3, sent. n. 17457/2007, cit.).
Entrando nel vivo della questione, per gli Ermellini il giudice di merito si è avvalso di:
“un ragionamento presuntivo nel quale risulta omessa ogni verifica in ordine alla gravità e concordanza degli elementi indiziari valorizzati. In particolare, i giudici d’appello hanno dato per scontata l’attendibilità del parametro della “corsa media” utilizzato dall’Ufficio nella ricostruzione dei ricavi.”
Infatti, in fattispecie analoghe al caso di specie, concernenti accertamenti a carico di tassisti fiorentini, è già stato rilevato che “la mera provenienza del dato dall’ente territoriale, e tanto più, come nel caso di specie, non da un provvedimento di quest’ultimo, ma da un suo informale comunicato stampa, non equivale di per sé ad elemento che ne conforti l’attendibilità [...]”, e che tale considerazione non può mutare “per mero effetto della pubblicazione dello stesso dato, in conseguenza del comunicato, sulla stampa, in quanto si tratta di circostanza che ne presupponga il vaglio critico” (Cass. n. 16875/2021 che richiama Cass. Sez. 5, ord. n. 28175/2020, Cass., sez. 5, n. 33042/2019; Cass., sez. 5, n. 5664/2020; Cass., sez. 5, n. 17349/2020).
Ancora, sulla medesima linea interpretativa, in un’altra fattispecie analoga a quella che viene in rilievo nel presente giudizio, è stato affermato che:
“[...] al fine di accertare che la percorrenza media delle corse in taxi equivale a quella assunta dall’Amministrazione nell’accertamento, il giudice a quo ricorre ad un’inferenza presuntiva, ex art. 2729 cod. civ., della quale (omesso ogni riferimento alla gravità e concordanza) esplicita soltanto l’apprezzamento dell’attendibilità, che ritiene sorretto da tre indizi: la provenienza istituzionale della notizia dal Comune di Firenze; la circostanza che essa sia stata riportata dalla stampa; e la mancata contestazione del dato da parte della categoria dei tassisti. Tuttavia, la mera provenienza del dato dall’ente territoriale - e tanto più, come nel caso di specie, non da un provvedimento di quest’ultimo, ma da un suo informale comunicato stampa - non equivale di per sé ad elemento che ne conforti l’attendibilità, se si coniuga alla premessa che la raccolta dello stesso dato, come esplicitato nella motivazione dalla CTR, non è frutto di una specifica indagine.”
Né tale considerazione può mutare per mero effetto della pubblicazione dello stesso dato, in conseguenza del comunicato, sulla stampa, in quanto non si tratta di circostanza che ne presupponga un vaglio critico.
Del tutto generico, infine, appare il riferimento alla mancata contestazione, scisso da qualsiasi precisazione funzionale e cronologica del contesto nel quale la “categoria” avrebbe dovuto e potuto contestare il dato.
Secondo i giudici di Piazza Cavour:
“la CTR ha quindi errato laddove, nell’accertare la controversa percorrenza media della corsa in taxi nel contesto territoriale interessato, ha fatto ricorso ad un ragionamento presuntivo che ha omesso ogni verifica della gravità e della concordanza degli elementi indiziari con riferimento alla circostanza da accertare; ed ha invece concentrato la valutazione dell’attendibilità riferendola esclusivamente, nei termini descritti, alla fonte del dato ed alla sua diffusione» (Cass. Sez. 5, 33042 del 2019, richiamata anche da Cass. Sez. 5, ord. n. 17349/2020).”
La corsa media: l’opinione della Corte di Cassazione
Per i massimi giudici, il ragionamento utilizzato dal Fisco per la ricostruzione del reddito imponibile risulta ancorato su un dato (la lunghezza di 3,2 chilometri della “corsa media”) che:
“per essere credibile e, quindi, idoneo a garantire il requisito della gravità del ragionamento presuntivo ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., deve essere supportato dalla dimostrazione della sua ricorrenza statistica nel settore economico e nel contesto temporale di riferimento.”
Pertanto, “la commissione regionale, confermando l’utilizzabilità del suddetto parametro senza verificarne l’attendibilità ed omettendo di esaminare i rilievi critici svolti dal contribuente anche in merito alla correttezza della sua applicazione nel calcolo matematico”, è incorsa nelle violazioni di parte denunciate.
La sentenza viene, quindi, cassata con rinvio al Giudice di merito il quale provvederà al riesame.
Brevi note: la ricostruzione dei ricavi nei confronti dei taxisti attraverso i chilometri percorsi
La resa chilometrica nei confronti dei taxisti costituisce un classico e naturale percorso investigativo, utilizzato spesso dagli uffici per ricostruire i ricavi.
Di recente, nel corso del 2019, la Corte di Cassazione si è occupata di due accertamenti operati nei confronti di due taxisti.
Infatti, le ordinanze della Corte di Cassazione, n. 32883 del 13 dicembre 2019 e n. 33042 del 16 dicembre 2019, hanno esaminato due ricostruzioni di maggiori ricavi, operate ai sensi dell’art.39, comma 1, lett.d, del D.P.R.n.600/73, e dell’art.54, comma 2, del D.P.R. n. 633/72.
In particolare:
- con la pronuncia n. 32883/2019, i massimi giudici hanno preso atto che la CTR ha indicato analiticamente tutte le presunzioni gravi, precise e concordanti che hanno condotto all’accertamento di un reddito superiore a quello dichiarato, a prescindere della congruità del reddito dichiarato in relazione all’utilizzo degli studi di settore. In particolare, “la Commissione regionale ha valorizzato tutta una serie di elementi oggettivi, in grado di dimostrare i maggiori redditi di impresa, e segnatamente i tempi di attività giornaliere (12 ore), le fatture relative alla cooperativa di riferimento, le schede carburante, le tariffe da praticare allegate alla delibera del Consiglio Comunale, i risultati dell’ufficio statistica comunale, l’esiguità dei costi di manutenzione, i chilometri percorsi nell’anno come dichiarati dal contribuente negli studi di settore (35.100), la corsa media di Km 3,2, il costo medio di ogni corsa pari ad 6,87 euro”;
- con la pronuncia n. 33042/2019, la Corte, in ordine alle critiche che il ricorrente ha sollevato, secondo cui la CTR non avrebbe considerato che il dato relativo alla c.d. resa chilometrica del taxista (rapporto tra corrispettivi dichiarati dal contribuente nell’anno d’imposta 2003 e chilometri percorsi nell’esercizio dell’attività, indicati nello studio di settore depositato con la dichiarazione dei redditi del medesimo anno) non potrebbe compararsi, come ha fatto l’Agenzia per evidenziare ricavi non dichiarati, a quello conseguente all’applicazione delle tariffe stabilite dal Regolamento per il servizio di taxi adottato dal Comune di Firenze, per la Corte non colgono la ratio della motivazione della sentenza d’appello sul punto. “Infatti, la motivazione della sentenza impugnata dedica un apposito capoverso alla questione della percorrenza a vuoto, concludendo per l’irrilevanza concreta del dato, sia per la scarsa incidenza (che desume dalla diffusione delle stazioni di sosta, dall’operatività del sistema del radio-taxi); sia per la compensazione sostanziale, nei limitati casi nei quali esso si possa verificare, con la ricorrenza possibile di altre circostanze concrete (servizio notturno e festivo), comportanti maggiorazioni dei corrispettivi pagati dai clienti, non valutate nell’accertamento”. Parimenti inammissibili sono state ritenute le censure con le quali il ricorrente contesta la sentenza di appello per aver confermato la sussistenza dei presupposti dell’accertamento e la ricostruzione induttiva del reddito, senza considerare che: il turno giornaliero di 12 ore del tassista non equivaleva necessariamente al tempo quotidiano di lavoro del contribuente, rappresentando solo il limite massimo entro il quale egli poteva lavorare; il contribuente, legittimamente, poteva utilizzare il taxi anche per uso privato, con la conseguenza che l’uso promiscuo del mezzo avrebbe inciso anche sul rapporto tra costi del carburante (registrabili solo con riferimento a quello utilizzato per l’attività di lavoro) e chilometraggio indicato sulle schede carburante (che, desunto dal contachilometri del mezzo, non consentirebbe di distinguere tra uso privato e lavorativo dell’auto).
Il rapporto fra i ricavi dichiarati ed i chilometri percorsi, non depurato dei percorsi a vuoto, in quanto di scarsa incidenza, legittima per la Cassazione (ord. n. 25342 dell’11 novembre 2020) la ricostruzione dei ricavi operata nei confronti di un tassista, ma la stessa non può fondarsi sul parametro della cd. corsa media, se desunto sulla base di mere notizie di stampa.
La pronuncia, dopo aver confermato che il divieto di utilizzare presunzioni a catena non è desumibile dagli artt. 2729 e 2697 c.c. , né da qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea in quanto a sua volta adeguata a fondare l’accertamento del fatto ignoto, ha ritenuto legittima la ricostruzione dei ricavi operata attraverso l’accertamento analitico, con posta induttiva sui ricavi, nei confronti di un contribuente esercente l’attività di tassista, utilizzando il criterio della resa chilometrica (divisione dei ricavi dichiarati per i chilometri percorsi).
Tuttavia, il parametro utilizzato della cd. corsa media (lunghezza della corsa) non può essere ricavato da notizie di stampa.
Nel caso di specie, l’atto impositivo trovava conferma sia in primo che in secondo grado e di conseguenza il contribuente si è rivolto ai massimi giudici, contestando la rilevanza attribuita dal giudice regionale alla c.d. resa chilometrica (remunerazione per ogni chilometro percorso definita inverosimile rispetto alle tariffe stabilite dal regolamento comunale), in quanto l’Ufficio non aveva tenuto conto dei chilometri percorsi “a vuoto”, relativi al tragitto di ritorno dal luogo in cui veniva accompagnato il cliente al punto di stazionamento del taxi, come pure i chilometri percorsi sempre “a vuoto”, nel caso in cui il cliente, dopo la “chiamata”, non avesse atteso l’arrivo del mezzo.
Per la Corte, la sentenza impugnata non ha ignorato le argomentazioni del ricorrente circa il mancato calcolo delle corse “a vuoto”, ma le ha ritenute di scarsa incidenza, posto che tali percorsi erano verosimilmente brevi, e in ogni caso compensati dall’addizionale sulla tariffa per lavoro festivo, notturno e per trasporto bagaglio.
Né migliore sorte è toccata alla doglianza relativa all’uso promiscuo della vettura (utilizzata anche per motivi personali), atteso che l’accertamento dell’Ufficio era basato sul chilometraggio indicato dallo stesso contribuente nella dichiarazione dei redditi, così che appare verosimile desumere, in assenza di ulteriori elementi, che il chilometraggio si riferisse solo a quello effettuato per l’esercizio dell’attività.
Ancora di recente, con l’ordinanza n. 7805 del 10 marzo 2022, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa alla ricostruzione dei ricavi nei confronti dei taxisti, legittimando il metodo di ricostruzione adottato dall’Ufficio, osservando che i dati emersi dal controllo contabile del “Registro dei corrispettivi” e delle “schede carburanti” ed in particolare il fatto che i costi dei carburanti erano attestati trimestralmente ad una cifra di circa 700 euro al trimestre, costo che rimaneva costante in contabilità a prescindere dalla quantità di chilometri percorsi nei vari trimestri.
Tali dati hanno convinto i giudici di secondo grado della inattendibilità della contabilità, con la conseguenza di ritenere legittimo l’operato dell’ufficio, che sulla base di tali elementi ha ricostruito i ricavi del servizio taxi (comparazione tra prezzo della corsa e kilometri giornalieri percorsi sulla base del regolamento unificato per il servizio taxi allegato alla delibera del consiglio comunale e del relativo tariffario obbligatorio, territorio assegnato, fascia oraria assegnata, corsa media di chilometri 3,2, determinazione di euro 7,23 di costo medio della corsa, etc.).
E con l’ordinanza n. 30664 del 18 ottobre 2022, la Corte di Cassazione ha legittimato il metodo di ricostruzione adottato dall’Ufficio (chilometri percorsi).
Per gli Ermellini, lo sviluppo motivazionale proposto nella pronuncia impugnata dà contezza delle ragioni in base alle quali è stato ritenuto legittimo l’accertamento analitico induttivo siccome si è argomentato che “appare irrisorio ed inattendibile il reddito dichiarato dal contribuente negli anni in questione con riguardo all’attività svolta e al valore della licenza di taxi attese peraltro le discordanze tra lo studio di settore e i dati forniti dal contribuente sul chilometraggio” sulla base, si ripete, della discrasia tra i chilometri percorsi indicati nello studio di settore presentato e quelli rilevabili con le schede carburante; il tutto alla luce della obiettiva antieconomicità dell’attività in concreto svolta.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: I controlli fiscali sui tassisti