Il prezzo della benzina varia sulla base di diversi fattori e non è solo legato a eventuali sconti sulle accise
In questi ultimi tempi tanto si è discusso sul prezzo della benzina ed in particolare sull’opportunità o meno (considerati i vincoli di bilancio e le scelte da fare su dove investire le risorse pubbliche) di eventuali proroghe di sconti sulle accise.
La prima domanda da porsi, però, in tal caso, è se davvero, in una tale discussione, il tema delle accise sia il primo “imputato”.
E il primo punto da cui partire è allora come e quanto guadagnano le compagnie petrolifere.
Il dato di margine di profitto attribuito alle compagnie petrolifere è comprensivo, innanzitutto, della cosiddetta quotazione platts, vale a dire di quello che, per convenzione, viene assunto dai petrolieri come il costo dei prodotti finiti, benzina e gasoli, sul mercato internazionale.
Al di là delle quotazioni internazionali del greggio (e più precisamente del Brent per quanto riguarda l’Europa), che rispecchiano più l’andamento del mercato finanziario e che quindi indicano soprattutto una tendenza di prezzo influenzata da timori, preoccupazioni e speculazioni, il vero riferimento è quindi proprio il Platts, che fotografa il valore effettivo dei prodotti raffinati, basato sugli scambi fisici in un determinato giorno e in una determinata aerea.
Come si determina il prezzo della benzina?
Le fasi di tutta la filiera, ivi comprese le speculazioni internazionali, sono interamente controllate dalle stesse compagnie petrolifere, quasi tutte integrate.
Vale a dire che ciascuna compagnia petrolifera (la divisione operativa) vende/compra i prodotti a/da se stessa (la corporate).
E lo fa, a volte, ad un prezzo che nulla ha a che vedere con la quotazione platts, ma semmai con le particolari (anche legittime) esigenze interne di ogni azienda.
Tale spread comunque “scompare” dietro la quotazione platts.
Cosa che emerge se si osserva come le stesse compagnie petrolifere vadano abbondantemente sotto il loro margine denunciato quando vendono i prodotti sul libero mercato alle cosiddette pompe bianche (cioè indipendenti e senza esclusiva con le compagnie).
Vero è che nel settore ci sono ampi fenomeni frodatori, che hanno visto coinvolte soprattutto le pompe bianche, ma, al di là degli aspetti patologici (comunque minoritari), è evidente che le compagnie petrolifere non vendono in perdita.
Ciò significa allora che una parte consistente del loro margine si nasconde proprio all’interno della quotazione platts.
E, del resto, non a caso, il “margine industriale lordo” - cioé quella componente che contiene la parte del prezzo che le compagnie riservano a se stesse- è l’unico elemento “presunto” nella determinazione del prezzo di vendita.
Vale a dire che viene calcolato per differenza rispetto ad altri dati considerati oggettivi: il prezzo al pubblico medio rilevato dal Ministero dello sviluppo economico, il valore dell’IVA e dell’accisa, il costo internazionale del “prodotto finito” sulla base della quotazione Platts (già questo comunque, in realtà, non oggettivo).
Gli operatori del settore petrolifero, insomma, vendono (apparentemente), in certi casi (in particolare laddove non hanno rapporti di “controllo” o influenza economica) la benzina e il gasolio al prezzo di costo, o addirittura «sotto costo».
Ma è credibile allora che possano non guadagnarci e addirittura rimetterci?
La differenza nei prezzi alla pompa che si potrà rinvenire tra gli impianti “colorati” e gli impianti indipendenti, in realtà, a parte i già detti fenomeni patologici di frode, o è ascrivibile ad una diversa valorizzazione della materia prima, oppure a fattori individuabili nelle fasi a valle della raffinazione, e dunque nella logistica e nella distribuzione.
Per costruire il prezzo al consumo, infatti, si parte dal costo di acquisizione basilare del bene (quotato dal Platt’s specifico del prodotto), si aggiungono i costi di commercializzazione e gestione ed il ricarico (ricavo industriale) e, infine, le imposte indirette e sul valore aggiunto degli scambi (oneri fiscali, accisa ed IVA).
Addossare allora tutta la “colpa” alle accise (o individuare nella loro riduzione la sola soluzione) è quanto meno riduttivo.
In ogni caso, è evidente che, grazie al sistema tutto interno di gestione del prodotto, dall’inizio (estrazione) alla fine (vendita alla pompa) del ciclo, tali fenomeni possono essere in qualche modo assimilati a fenomeni di transfer pricing, laddove il prezzo finale potrebbe non risultare in condizioni di libera concorrenza, quanto meno se confrontato con quello esercitato da soggetti indipendenti (e cioè dalle cosiddette pompe bianche).
Per tale motivo e sulla base di tale logica potrebbero quindi essere individuati i possibili casi di determinazione del prezzo fuori mercato: sia quello in cui si faccia un prezzo superiore, poi eventualmente scaricato sui consumatori (con conseguente “extraprofitto”) e sia quello in cui invece, anche grazie alla compensazione tra i vari passaggi (e costi e ricavi) della filiera, si faccia un prezzo che apparentemente sia addirittura antieconomico e sotto costo (come quando appunto le stesse compagnie vendono il medesimo prodotto alle pompe bianche, con sconti non coerenti con il margine lordo dichiarato).
In realtà e in conclusione, quello che è evidentemente poco credibile e inaffidabile è proprio il valore attribuito al “margine industriale lordo”, che, come detto, rappresenta solo una parte del margine che i “petrolieri” riservano a se stessi.
Come intervenire sul prezzo della benzina?
Insomma, per intervenire con cognizione di causa sui prezzi della benzina bisognerebbe riuscire ad intercettare tutti i fenomeni di eventuale arbitraggio dei prezzi (superiore al valore normale o inferiore con ricarico su altri passaggi della filiera) rispetto ad un comune ed oggettivo valore normale di riferimento, distinto per prodotto, mercato e fase di commercializzazione.
Anche per intercettare il presumibile extraprofitto che deriva da tali operazioni era stata del resto a suo tempo introdotta la “famigerata” Robin tax.
Del resto, non c’è dubbio che l’ampia liquidità ha senz’altro favorito, in questi anni, un’attività di hedging delle compagnie, che utilizzano, in via ordinaria, strumenti speculativi per “proteggere” il valore del greggio, il che gli consente, nonostante la discesa del prezzo del greggio di (sopra)valutare le loro riserve grazie a meccanismi di valorizzazione delle scorte.
Quindi, alla luce di quanto sopra evidenziato, la causa della non proporzionale discesa dei prezzi non è solo fiscale.
Certo, in termini puramente percentuali il fisco rileva, eccome.
Ma, in tale contesto, un peso rilevante lo assumono anche le dinamiche di prezzo infragruppo della filiera e le strategie speculative, laddove gli strumenti finanziari più importanti utilizzati per fare trading sul petrolio sono, tra gli altri, i contratti futures, gli EFP (Exchange of Futures for Phisycal), le opzioni su futures, gli swap e i CFD (Contract For Difference).
Le grandi società petrolifere ricorrono del resto spesso all’utilizzo della cosiddetta Fence Strategy per coprirsi da variazioni impreviste del prezzo del greggio.
In particolare, per esempio, la società petrolifera compra contratti futures e opzioni put sul greggio e contestualmente vende opzioni call sulla stessa tipologia di greggio.
L’effetto che ne deriva è una protezione verso un’eventuale discesa dei prezzi del greggio e un abbassamento dei costi operativi.
Investimenti con un bene quale il petrolio, risultano dunque essere una ottima alternativa in termini di guadagno, grazie alla presenza di una estrema volatilità del bene.
Insomma, le società petrolifere sono ormai veri e propri trader e questo può avere anche riflessi sul prezzo a carico del consumatore.
Attraverso l’acquisto di sostanziosi quantitativi di contratti futures, gli speculatori hanno peraltro fornito infatti un incentivo finanziario alle compagnie petrolifere per acquistare più petrolio e porre questo a riserva, con il risultato di incrementare il livello di riserve petrolifere e raggiungere livelli complessivi mai registrati in precedenza, che, anche per il sistema di valutazione delle scorte, vengono ancora venduti ai prezzi superiori a quelli dell’attuale quotazione del greggio.
Certo, come detto, la componente fiscale è rilevante.
Ma non è così rilevante.
E allora, come già avviene in Norvegia, si potrebbe ipotizzare un meccanismo di individuazione del prezzo di mercato, al netto delle manovre speculative, che comporti, in caso di prezzo di vendita ingiustificato rispetto al prezzo del greggio, una sovratassazione sulla quota di utile “ingiustificato”, anche considerato che a penalizzare i consumatori è probabile che siano soprattutto i contratti di approvvigionamento che in Italia, rispetto ai principali paesi europei, impediscono una vera concorrenza e quindi prezzi finali più convenienti.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Dove si nasconde il prezzo della benzina?