La Cassazione si è recentemente espressa sulla corretta applicazione delle regole in tema di prova per presunzioni nel processo tributario. Qualunque documento o dichiarazione può costituire la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza numero 41 del 2024, ha chiarito il concetto di presunzione nella sua applicazione nell’ambito del processo tributario.
Nel caso di specie, i contribuenti proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale, in riforma della sentenza di primo grado, ne aveva respinto i ricorsi avverso avvisi di accertamento che recuperavano a tassazione, per l’anno 2006, maggiori ricavi imputati ad una società cooperativa, ritenuta non svolgere attività di mutualità prevalente e riqualificata quindi come società di fatto riferibile ai due soci amministratori.
Il concetto di presunzione nel processo tributario: il caso di specie
Nel proporre ricorso per Cassazione i ricorrenti deducevano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2729 cod. civ., nonché dell’art. 39 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, lamentando che la Commissione Tributaria Regionale aveva attribuito pieno valore probatorio alle dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza da una parte dei soci, laddove invece andavano considerate mere dichiarazioni di terzi con valore puramente indiziario, che, da sole, non valevano come prove e non potevano quindi validamente supportare un accertamento, disattendendo le prove documentali prodotte in giudizio dai attuali ricorrenti.
Con un secondo motivo di impugnazione i ricorrenti denunciavano poi la violazione dell’art.2727 e 2729 cod. civ. per violazione del divieto di doppia presunzione, nonché violazione dell’art. 2427 cod.civ., lamentando che era stata accertata l’esistenza di una società di fatto ricorrendo ad una doppia presunzione, ossia deducendo in via presuntiva l’assenza dello scopo mutualistico e poi da tale presunzione risalendo, sempre in via presuntiva, all’affermazione dell’esistenza di una società di fatto.
Secondo la Suprema Corte la prima censura era infondata.
Evidenziano i giudici di legittimità che in linea teorica era corretto attribuire alla dichiarazione del terzo mero valore indiziario, assurgente a valore di prova solo in presenza di altri elementi di riscontro (cfr., Cass. 39831/21 e Cass. 32024/22), anche in caso di dichiarazioni plurime e concordi, come quelle in esame (cfr., Cass. 31588/21).
Nel processo tributario, infatti, la dichiarazione di terzo sostitutiva di atto notorio non è assimilabile alla prova testimoniale, ma costituisce indizio ammissibile e utilizzabile tanto dall’Amministrazione quanto dal contribuente, nel rispetto del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, espressione del principio di uguaglianza ai fini dell’art. 3 Costituzione.
Nel processo tributario, pertanto, in tema di prova per presunzioni semplici, valgono i medesimi criteri di cui all’art. 2729 c.c., non essendo sufficiente il fatto che le dichiarazioni di terzo sostitutive di atto notorio prodotte nel processo siano plurime e di contenuto analogo (“concordanza”) perché l’indizio in esse contenuto assurga a prova critica, essendo necessario un approfondimento da parte del giudice circa la “precisione” del fatto storico noto, desunta dalla sua contestualizzazione anche con riferimento agli ulteriori elementi di prova raccolti nel processo, nonché riguardo alla sua “gravità”, riconnessa alla probabilità della sussistenza del fatto ignoto, che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto.
Nel caso di specie, tuttavia, la censura non era pertinente, essendosi la Commissione Tributaria Regionale pienamente conformata ai principi esposti.
In primo luogo, infatti, i giudici di appello avevano tratto le loro conclusioni non solo dalle dichiarazioni, pur plurime e concordanti dei lavoratori, ma anche dalla contestualizzazione delle stesse con le emergenze documentali acquisite, e segnatamente con i documenti dell’impresa indicanti le trasferte esenti, dai quali emergeva la corresponsione di indennità di trasferta senza titolo.
Inoltre, contrariamente a quanto lamentato dai ricorrenti, la CTR si era confrontata con le produzioni dagli stessi effettuate, evidenziando come da esse risultasse il rispetto meramente formale delle previsioni normative in tema di società a mutualità prevalente.
Anche la seconda censura era poi infondata.
Il concetto di presunzione: il parere della Cassazione
Evidenzia a tal proposito la Corte che quella che i ricorrenti configuravano come prima presunzione, ossia la fittizietà dell’inquadramento della compagine sociale come società cooperativa a mutualità prevalente, non integrava una presunzione semplice che traeva da un fatto noto la conoscenza di un fatto ignoto, ma derivava da un prudente ed approfondito esame delle risultanze istruttorie, delle quali i giudici di appello avevano offerto ampia evidenza nella motivazione della sentenza impugnata: le dichiarazioni dei soci lavoratori, l’assenza di vita associativa e partecipativa, la natura meramente formale degli adempimenti amministrativi e societari posti in essere ai fini del rispetto della disciplina di favore del settore mutualistico.
Inoltre, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (ex plurimis Cass. n. 20748 del 1/08/2019; Cass. n. 23860 del 29/10/2020; Cass. n. 27982 del 07/12/2020) il cosiddetto divieto di presunzioni di secondo grado o a catena non è in realtà presente nel nostro Ordinamento.
Il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o divieto di doppie presunzioni, o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) è inesistente perché non è riconducibile né agli evocati artt. 2729 e 2697 cod. civ., né a qualsiasi altra norma.
Il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., può dunque legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea — in quanto, a sua volta adeguata — a fondare l’accertamento del fatto ignoto (cfr., Cass. n. 18915, n. 17166, n. 17165, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015).
In tema di presunzioni, la prova inferenziale apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa pertanto sì che il fatto “noto” attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, il quale cessa pertanto di essere tale, divenendo noto, il che risolve l’equivoco che si cela nel divieto di doppie presunzioni (cfr., Cass. n. 27982 del 07/12/2020).
Nel caso di specie, inoltre, rileva la Cassazione, la Commissione Tributaria Regionale aveva evidenziato di avere ritenuto “presenti per contro gli elementi di una società di fatto”, come desunti da una autonoma serie di elementi, dettagliatamente analizzati, operando così un accertamento positivo, fondato su dati concreti, solo in parte coincidenti con quelli che avevano condotto alla esclusione della natura mutualistica.
A prescindere dallo specifico caso processuale, giova infine anche evidenziare quanto segue.
A norma dell’art. 2729 c.c., il giudice non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti.
E l’esistenza di “elementi presuntivi” (cioè indizi idonei a fondare una presunzione) forniti dall’Amministrazione a sostegno dell’accertamento induttivo comporta l’inversione dell’onere della prova solo laddove i suddetti elementi siano effettivamente tali (ossia idonei a fondare una presunzione), non potendo ovviamente ammettersi che l’Amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario, determinando perciò solo l’inversione dell’onere probatorio.
L’Amministrazione Finanziaria può dunque procedere alla rettifica, indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente, qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto da qualsiasi altro atto e documento in suo possesso.
La rettifica può essere quindi effettuata anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, sulla base di altri documenti o scritture contabili (diverse da quelle previste dalla legge), o in riferimento ad “altri dati e notizie” raccolti nei modi prescritti dalla legge.
In sostanza, qualunque documento o dichiarazione può costituire la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa, con quindi possibilità di ingresso nel processo tributario anche delle prove atipiche, sotto forma di presunzioni semplici (cfr., Cass., n. 14233 del 2015).
In tali casi non esiste dunque alcuna doppia presunzione, ma un fatto noto da cui trae legittimamente origine la presunzione dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ. (cfr., Cass., n. 5798 del 03/03/2020).
In conclusione, quanto alla corretta applicazione delle regole in tema di prova per presunzioni, nel processo tributario, per la formazione della prova critica, valgono i suddetti criteri, laddove:
- la “precisione” va riferita all’indizio costituente il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso sia ben determinato nella realtà storica;
- la “gravità” va ricollegata al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto, che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto;
- e la “concordanza”, infine, richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr., Cass. n. 15454 e n. 2482 del 2019).
Anche se, a ben vedere, a fondare l’accertamento è in teoria sufficiente anche soltanto un solo fatto, qualora presenti i requisiti della gravità e precisione (cfr., Cass., n. 2082 del 30/1/2014; Cass., n. 4472 del 26/3/2003).
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