Analisi dei presupposti giuridici di presunzione di distribuzione degli utili extracontabili di una società ai soci
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 26914/2022, ha chiarito i presupposti giuridici di presunzione di distribuzione degli utili extracontabili di una società ai soci.
Nel caso in esame i contribuenti proponevano ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale, avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio aveva loro contestato, all’esito di una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza nei confronti di una società, l’evasione di imposte sui redditi ed IVA per l’anno 2013, in applicazione della presunzione relativa all’imputazione ai soci degli utili extrabilancio.
La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso.
Utili extracontabili: i fatti dell’Ordinanza della Corte di Cassazione numero 26914 del 2022
Sull’appello dei contribuenti, la Commissione Tributaria Regionale rigettava il gravame, evidenziando che gli stessi non avevano fornito prova del loro interesse all’instaurazione di un contraddittorio preventivo, che avrebbe potuto condurre ad un risultato ad essi favorevole, e comunque non avevano fornito alcuna prova idonea a superare la presunzione della distribuzione degli utili extracontabili, dimostrando, ad esempio, la loro estraneità alla interposizione societaria e alla destinazione degli utili derivanti dall’esercizio dell’attività imprenditoriale.
Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale i contribuenti proponevano infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., e la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 2, Dpr. n. 600/1973 e 55 Dpr. n. 633/1972, per non avere la CTR considerato che l’Agenzia non aveva fornito una prova effettiva e convincente della sussistenza della cd. “ristretta base societaria” tra i soci.
Secondo la Suprema Corte la censura era infondata.
I ricorrenti ritenevano che l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di speciali legami (principalmente vincoli personali, ovvero parentali), dai quali si potesse ricavare una situazione di “complicità” rivolta alla distribuzione (di fatto, ossia in mancanza di una delibera) di utili non dichiarati.
La Cassazione, però, non concordava con tale impostazione, evidenziando come sia assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione pro quota ai soci di utili extracontabili accertati nei confronti della società.
E ciò, rileva la Corte, non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza dei maggiori redditi della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, la quale implica, normalmente, un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, nonché un elevato grado, da parte loro, di compartecipazione e di conoscenza degli affari sociali.
A fronte di tale presunzione resta naturalmente salva la facoltà del socio di fornire la prova (contraria) del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società o da essa reinvestiti.
L’applicazione alle società di capitali a ristretta base partecipativa della presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili, aggiunge la Cassazione, è del resto legittima anche in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica, di per sé, un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extrabilancio (cfr., Cass., n. 24572 del 18/11/2014).
Si è infatti a tal riguardo precisato (Cass., n. 28247 del 2020) che, seppure sia vero che, in genere, l’esistenza di stretti rapporti familiari costituisca una circostanza che rafforza la presunzione di una diffusione “circolare” delle notizie, tuttavia non è “necessario” che sussistano tali rapporti, costituendo regola di comune esperienza quella per cui dalla ristrettezza della base sociale discende - secondo l’id quod plerumque accidit e salva la possibilità del contribuente di fornire la prova contraria - un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci stessi.
Pertanto, anche nell’ipotesi, in cui siano assenti rapporti di parentela, scatta comunque la presunzione che i soci siano edotti degli affari sociali e quindi siano consapevoli dell’esistenza di utili extra bilancio e che se li distribuiscano in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale (Cass., 18 novembre 2014, n. 24572; Cass., 12 novembre 2012, n. 19680).
Tanto premesso in linea generale, nella fattispecie in esame la compagine societaria della società era composta da tre società con uguali partecipazioni, una delle quali, a sua volta, era composta da due soci (i ricorrenti).
In assenza di elementi di segno contrario, che dimostrassero l’estraneità dei ricorrenti rispetto alla gestione della società partecipata, secondo la Cassazione, la Commissione Tributaria Regionale aveva dunque correttamente ritenuto che trovasse applicazione la presunzione della redistribuzione degli utili extracontabili in loro favore.
Al di là dello specifico caso processuale, sul tema giova comunque anche evidenziare quanto segue.
Presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci: alcune precisazioni
È legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, che, attesa la mancanza di una deliberazione ufficiale di approvazione del bilancio, trattandosi di utili occulti, deve ritenersi avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli utili sono stati conseguiti (cfr., Cass., Sentenza n. 25468 del 18/12/2015, Cass. n. 7564 del 2003; Cass., n. 24572 del 2014).
Tale presunzione, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del Dpr. 29 settembre 1973, n. 600, determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, dovendo questi offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società, ovvero per essere stati da essa reinvestiti.
E ciò in quanto, come detto, lo scarso numero dei soci si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell’onere per il socio di conoscere tali affari.
La circostanza poi che l’accertamento degli utili extracontabili di una società a ristretta base azionaria sia contenuto in un atto impositivo non definitivo, o in una sentenza non passata in giudicato a carico della società, non incide sulla operatività della presunzione di distribuzione di tali utili fra i soci (e dunque sull’accertamento di maggiori redditi da partecipazione dei singoli soci, o sul recupero dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte sui dividendi derivanti ai soci dalla distribuzione degli utili extracontabili), bensì soltanto sulla individuazione dell’oggetto di tale distribuzione.
E, peraltro, non essendo necessario, per l’accertamento a carico del socio ai fini IRPEF, che l’accertamento dei maggiori ricavi in capo alla società sia divenuto definitivo, lo stesso accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati rappresenta soltanto il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi, restando salva, per il socio, il quale abbia separatamente impugnato l’accertamento relativo al reddito da partecipazione senza avere preso parte al processo instaurato dalla società, la facoltà di contestare, oltre alla presunzione di distribuzione, anche la ricorrenza dello stesso presupposto (Cass., n. 19013 del 27/9/2016).
Allo stesso tempo, poi, la sentenza che, pronunciandosi sulla impugnazione di un atto impositivo emesso nei confronti dei soci per il recupero dell’IRPEF sui dividendi di una società a ristretta base azionaria, ponga a fondamento della propria decisione la quantificazione degli utili extracontabili della società contenuta in un’altra sentenza non ancora passata in giudicato non viola il divieto di doppia presunzione, potendo essere tuttavia eventualmente censurata per violazione dell’art. 295 cpc, atteso il rapporto di pregiudizialità tra i giudizi.
La sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c. si applica infatti anche al processo tributario e ricorre qualora risultino pendenti dinanzi a giudici diversi procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisce indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro.
Nella fattispecie, in ogni caso, analogamente a quanto accade nell’ipotesi disciplinata dall’art. 5 del Tuir per le società di persone, al socio vengono così imputati pro quota gli utili extrabilancio della società, e l’accertamento emesso in capo a tale soggetto è una conseguenza dell’avviso di accertamento dell’ente, che determina anche il quantum accertabile in capo al socio, salvo il caso in cui, come detto, quest’ultimo faccia valere proprie situazioni personali, in grado di incidere sull’accertamento emesso a suo carico.
In conclusione, è dunque in questi casi legittimo presumere che le somme corrispondenti al risultato dell’esercizio economico sono entrate nella disponibilità dei soci.
I maggiori utili contestati in questi casi ai soci si presumono infatti derivare da utili conseguiti dalla società in evasione di imposta e, dalla parte del socio, costituiscono redditi di capitale che il contribuente non ha fatto concorrere alla determinazione del proprio reddito complessivo.
I ricavi non contabilizzati, non entrati nelle casse sociali, vengono quindi considerati distribuiti ai soci in quanto tali (uti soci), senza nessun altro titolo giuridico che la qualità rivestita.
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