La Corte di Cassazione si è espressa sul tema della consulenza tecnica d'ufficio e onere della prova in materia di operazioni soggettivamente inesistenti. Un focus sull'argomento
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 12059/2024, ha chiarito alcuni rilevanti profili processuali in tema di consulenza tecnica d’ufficio.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto l’appello della società contribuente, nell’ambito di un contenzioso avverso un avviso con il quale l’Ufficio aveva contestato l’indetraibilità dell’IVA in relazione a fatture emesse da una società rivelatesi c.d. filtro o missing trader, ed afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti di acquisto di prodotti di elettronica a prezzi sensibilmente inferiori a quelli praticati dai fornitori ufficiali, anche dopo avere applicato la massima scontistica possibile fuori fattura.
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Operazioni soggettivamente inesistenti: il caso di specie
In particolare, la Commissione Tributaria Regionale, in adesione alle conclusioni della disposta CTU, aveva escluso, in capo alla società, la consapevolezza di avere voluto partecipare alle frodi IVA delle società fornitrici, avuto riguardo sia al fatto che la contribuente non poteva essere considerata un operatore specializzato nell’elettronica di consumo e sia alla ravvisata “ragionevolezza” degli sconti di cui aveva beneficiato quest’ultima, il che, secondo i giudici di appello, ne dimostrava la estraneità alle possibili iniziative fraudolente delle ditte venditrici.
Nell’impugnare la pronuncia, l’Amministrazione finanziaria deduceva la violazione degli artt. 7, comma 2, e 36, comma 2, n. 4 del D.Lgs. n. 546/92, per avere la CTR ritenuto la società contribuente non consapevole delle frodi perpetrate dalle fornitrici recependo acriticamente le conclusioni della CTU quanto al giudizio di “ragionevolezza” sugli sconti praticati dalle fatturanti.
E questo, oltre all’inutile richiesta di verifica di un fatto non contestato in sede processuale (ovvero se la società fosse un operatore specializzato per l’elettronica di consumo, essendo riconosciuto, nello stesso avviso, che gli acquisti di elettronica costituivano una minima parte di quelli complessivi), demandando al perito non già l’acquisizione di elementi conoscitivi, ma una vera e propria valutazione giuridica (“se gli sconti non contestati dalla parte ed indicati dall’Agenzia avrebbero potuto mettere in condizione di sapere che gli stessi potevano fare parte di una frode in quanto irragionevoli”), che, non fondandosi su elementi tecnico-contabili, oltre ad essere di competenza del giudice e non del consulente, aveva implicato un giudizio soggettivo basato su elementi non verificabili.
L’Agenzia denunciava poi la violazione dell’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 e dei principi indicati nelle sentenze della Corte di Giustizia europea, per avere la CTR ritenuto detraibile l’IVA, avendo, a suo avviso, la società provato di non avere “voluto partecipare” alla frode, sebbene la verifica del giudice di appello dovesse vertere però, in primo luogo, sull’assolvimento da parte dell’Amministrazione, anche in via presuntiva, dell’onere probatorio circa la consapevolezza della frode da parte del soggetto passivo.
Infine si denunciava la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in combinato disposto con gli artt. 19, comma 1, 54, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, per avere la CTR escluso in capo alla società l’elemento soggettivo della frode IVA senza considerare il quadro indiziario offerto dall’Ufficio (acquisti di prodotti elettronici da fornitori non ufficiali; coinvolgimenti dei fornitori, a vario titolo, in frodi IVA; incontroversi sconti indicati dall’Agenzia; acquisto dei beni a prezzi inferiori ai minimi praticati ai clienti al netto della scontistica massima applicabile agli stessi alle date di acquisto specifiche) e valorizzando al contempo elementi del tutto irrilevanti (quale la circostanza che la società non potesse essere considerata un operatore specializzato nell’elettronica di consumo) ai fini della prova della detta buona fede.
Secondo la Suprema Corte, per quanto di interesse, era fondata la censura con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. n. 546-92.
Consulenza tecnica d’ufficio e onere della prova nelle operazioni soggettivamente inesistenti: il pensiero della Corte
Evidenziano i giudici di legittimità che la consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo istruttorio in senso proprio, bensì un mezzo ausiliario, integrativo di conoscenza e valutazione del giudice di merito.
In quanto tale, spetta quindi a quest’ultimo stabilire, con riguardo all’emersione in corso di causa di particolari profili extragiuridici di natura tecnica o scientifica, se essa sia necessaria, ovvero opportuna ai fini del decidere.
Fermo restando comunque che, proprio per tale natura, in nessun caso la consulenza tecnica d’ufficio può venire disposta in funzione puramente esplorativa, o di esonero della parte dall’onere probatorio suo proprio.
La stessa Corte, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 3086/2022, ha peraltro enunciato il principio di diritto secondo cui il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite, il cui accertamento si renda necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli:
“a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio”
Pur potendo, pertanto, il giudice tributario, quando occorra acquisire “elementi conoscitivi di particolare complessità”, disporre consulenza tecnica, è comunque ad esso precluso “di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori” (cfr., Cass., n. 18976/07; Cass., n. 14960/10; Cass., n. 2106/16).
Il consulente è dunque un soggetto chiamato non a decidere in luogo del giudice, o insieme con esso, ma semplicemente a consigliare il giudice, quando occorra acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, con relazioni o pareri non vincolanti, e comunque non per supplire alle carenze istruttorie di una delle parti, ma per valutare tecnicamente i dati oggettivi già acquisiti agli atti di causa e quindi il materiale istruttorio già raccolto (cfr., Cass., n. 22535 del 2012 e Cass., n. 13470 del 2015).
Tanto chiarito, nella specie, premesso che, in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, sulla scia della giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, C- 277-14), la Corte ha affermato il principio di diritto per cui (cfr., Cass., n. 15369 del 2020; Cass., n. 28562 del 2021):
“In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”
Il giudice di appello, a fronte della contestazione dell’indetraibilità dell’IVA in relazione a fatture afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti, era ricorso alla CTU, recependone poi in toto le conclusioni e delegando in sostanza a questi valutazioni giuridiche sui fatti principali del giudizio, sovvertendo così gli oneri probatori delle parti.
In particolare, a parte il primo quesito vertente su una circostanza non contestata in sede processuale (determinare se la società fosse o meno un operatore specializzato per l’elettronica di consumo), il secondo quesito (“dica, altresì, se gli sconti non contestati dalla parte ed indicati dall’Agenzia avrebbero potuto mettere in condizione di sapere che gli stessi potevano far parte di una frode in quanto irragionevoli”), lungi dall’essere stato disposto per “acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità”, implicava appunto valutazioni, di natura non tecnica, sul fatto principale del giudizio, quale appunto la condotta in buona fede della contribuente.
La CTR, recependo in toto le conclusioni della CTU, aveva affermato che:
“in via preliminare ed assorbente l’esito peritale permette di escludere la consapevolezza della soc. coop. appellante di avere voluto partecipare ad una frode Iva.”
Era dunque evidente, secondo la Cassazione, che nella fattispecie in esame la CTU era stata disposta non per valutare tecnicamente i dati oggettivi già acquisiti agli atti di causa, ma per accertare fatti che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, dovevano necessariamente essere provati dalle stesse.
In definitiva e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova evidenziare che la sede in cui la CTU viene utilizzata è quella della decisione della causa e il giudice, peritus peritorum, libero nella valutazione e nell’apprezzamento dei risultati raggiunti dal consulente, deve comunque sempre motivare le ragioni per cui ritiene la CTU attendibile, soprattutto a fronte di osservazioni contrarie svolte dalle parti.
Se pure è vero che la CTU ha senz’altro una sua idoneità probatoria (laddove però, come visto, basata sull’accertamento di fatti e non di valutazioni soggettive su aspetti probatori di competenza delle parti del giudizio), ben potendo costituire fonte di convincimento del giudice che può elevarla a fondamento, anche esclusivo, della sua decisione, tuttavia, il giudice deve spiegare le ragioni per le quali ritenga tale relazione corretta e convincente; e questo sia in sé e sia in rapporto a tutte le altre risultanze istruttorie acquisite al giudizio.
Nel processo tributario, del resto, valutazioni equitative sono ammesse solo in casi eccezionali e il consulente tecnico deve rispondere esattamente al quesito postogli dal giudice, pena l’irrilevanza della stessa consulenza.
Il ricorrente che voglia contestare la ricostruzione della CTU, d’altro canto, deve opporre idonei, effettivi ed attendibili argomenti, non potendosi limitare a lamentare l’illegittimità della metodologia utilizzata, senza spiegare perché sarebbe illegittima e senza addurre alcuna alternativa ricostruzione.
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