Accertamenti immobiliari: la Corte di Cassazione, esprimendosi su un caso pratico, ha chiarito alcuni aspetti rilevanti per la distinzione tra motivazione e prova
Onere probatorio e accertamenti immobiliari: cosa fare in caso di discordanza tra prezzo degli immobili venduti e altri elementi?
Sul tema analizziamo un caso pratico, più volte preso in considerazione, come tipologia, dalla giurisprudenza recente.
L’avviso richiamava il PVC della Guardia di Finanza, che, nell’ambito di una verifica fiscale nei confronti della società per le annualità 2004-2005-2006-2007, aveva rilevato una netta discordanza tra il prezzo degli immobili venduti e numerosi altri elementi raccolti (preliminari di compravendita, assegni consegnati dagli acquirenti o bonifici di pagamento, mutui immobiliari stipulati per l’acquisto, valore dei cespiti, risposte degli acquirenti ai questionari, ecc.), idonei, secondo la pretesa impositiva, a dimostrare l’omessa dichiarazione dei più elevati ricavi e l’evasione delle imposte.
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso in ragione dell’utilizzo dei valori OMI da parte dell’Amministrazione finanziaria (reputato dai giudici arbitrario) e dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli acquirenti alla Guardia di Finanza (stante il divieto di prova testimoniale).
La Commissione Tributaria Regionale respingeva poi l’appello dell’Agenzia delle Entrate, affermando che l’Ufficio non aveva assolto il proprio onere probatorio, in quanto non aveva prodotto in giudizio il processo verbale di constatazione, corredato della documentazione impiegata per dimostrare la pretesa erariale.
L’Ufficio, secondo i giudici di secondo grado, avrebbe infatti dovuto provare l’affermata evasione compiuta dalla società e, per fornire tale prova, avrebbe dovuto indicare i soggetti sentiti dalla Guardia di Finanza, produrre le loro dichiarazioni, per consentirne la valutazione del contenuto, ed indicare l’ammontare delle somme versate per le singole vendite da raffrontare con le dichiarazioni acquisite.
In mancanza della produzione in giudizio del PVC, secondo la CTR, l’accertamento non poteva essere considerato fondato, non avendo i giudici a disposizione nessuno degli elementi indispensabili per la decisione.
Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione degli artt. 32 e 39 Dpr. n. 600 del 1973, 51, 54, 55 Dpr. n. 633 del 1972, e 2697 cod. civ. per avere la Commissione Tributaria Regionale escluso la fondatezza della pretesa impositiva, fondata invece su elementi presuntivi, puntualmente riportati nell’avviso di accertamento, rispetto ai quali la parte non aveva opposto contrastanti elementi probatori.
Con un secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduceva poi la violazione degli artt. 7 Dlgs. n. 546 del 1992, 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., per avere la CTR omesso di esercitare i propri poteri officiosi di indagine per acquisire il citato PVC, documento “non contestato quanto ad esistenza e contenuto, ma, soltanto, non inserito tra gli atti del giudizio nel supporto cartaceo”.
Col terzo motivo di ricorso si deduceva infine la violazione degli artt. 39 Dpr. n. 600 del 1973, e 54 e 55 Dpr. n. 633 del 1972, per avere la CTR omesso di prendere in considerazione gli elementi posti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della rettifica dei valori dichiarati.
Onere probatorio e accertamenti immobiliari: la posizione della Corte di Cassazione
Secondo la Suprema Corte la prima censura era inammissibile e, comunque, infondata.
Evidenziano infatti i giudici di legittimità che l’Agenzia non coglieva la ratio decidendi della pronuncia, la quale non aveva affatto escluso la validità degli elementi presuntivi dedotti dall’Amministrazione, ma aveva rilevato che gli stessi erano stati solo allegati e non supportati da prova.
Il fatto che l’accertamento fosse stato basato sugli elementi del PVC e che questo fosse stato precedentemente reso noto al contribuente valeva del resto a renderlo “perfetto” sotto il profilo della sua motivazione, ma, ad avviso della Cassazione, non era sufficiente a dare dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa tributaria che “non può prescindere dalla produzione in giudizio del processo verbale di constatazione” (Cass., n. 3978/2017).
La Corte rileva poi come la giurisprudenza di legittimità sia chiara nel distinguere l’adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo dalla prova dei fatti posti a fondamento dello stesso, laddove l’esistenza di un’adeguata motivazione non implica anche la prova dei fatti sui quali la pretesa si regge.
Le funzioni che l’una (motivazione dell’atto) e l’altra (prova dei fatti che ne sono posti a fondamento) sono dirette ad assolvere sono infatti diverse ed entrambe essenziali.
Mentre la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria, al fine di approntare una idonea difesa, dovendo quindi il corrispondente obbligo ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, la prova attiene invece al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso (cfr., Cass., n. 955/2016).
Rileva ancora la Corte come fosse del resto irrilevante che il processo verbale di constatazione fosse stato a suo tempo notificato alla società contribuente, dal momento che, a seguito dell’impugnazione giudiziale del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo di accertamento dell’imposta, ci si muove in un ambito strettamente processuale, in cui anche, e soprattutto, il giudice, oltre che le parti, deve essere messo in grado di conoscere - e per intero - tutti gli atti rilevanti ai fini della decisione, fra cui riveste un ruolo primario quello richiamato per relationem nella motivazione del provvedimento impugnato (cfr., Cass., 5903/2019 e Cass,. 5904/2019; sull’indispensabilità della produzione in giudizio del processo verbale di constatazione, tra le altre, v. anche Cass., 3978/2017 e Cass., 21509/2010).
Come si esprime la Corte di Cassazione su onere probatorio e accertamenti immobiliari
Anche il secondo motivo di ricorso, secondo la Corte, era inoltre infondato.
Rilevano a tal proposito i giudici che, secondo consolidata giurisprudenza, “l’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, attribuisce al giudice tributario il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova non per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma soltanto in funzione integrativa degli elementi di giudizio, il cui esercizio è consentito ove sussista una situazione obiettiva di incertezza e laddove la parte non possa provvedere per essere i documenti nella disponibilità della controparte o di terzi (in applicazione di detto principio, la S.C. ha ritenuto che il giudice tributario non potesse esercitare il potere di acquisizione d’ufficio di un processo verbale di constatazione richiamato nell’avviso di rettifica)” (così, Cass., 955/2016; e, analogamente, Cass., 10401/2018 e Cass., 25563/2017).
E infine anche il terzo motivo di ricorso, secondo la Cassazione, era inammissibile e, comunque, infondato.
I giudici di legittimità rilevano a tal proposito che l’Agenzia ricorrente pretendeva, così, inammissibilmente, di sottoporre alla Cassazione la valutazione degli elementi probatori che il giudice di merito non aveva considerato (proprio in ragione della mancanza del citato documento).
E, in ogni caso, l’elemento riguardante lo scostamento del prezzo di vendita rispetto ai valori OMI - asseritamente trascurato dalla CTR - non valeva a rendere fondata la pretesa fiscale, dato che, “nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di beni immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi dell’art. 24, comma 5, della L. n. 88 del 2009 (legge comunitaria 2008), che ha modificato l’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, conv. in L. n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purché dotato dei requisiti di precisione e di gravità, elemento che non può, tuttavia, essere costituito dai soli valori OMI, che devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di presumptio de presumpto” (da ultimo, Cass. 2155/2019).
Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.
Onere probatorio e accertamenti immobiliari: i punti rilevanti dell’Ordinanza numero n. 29878/2020
La Corte, con la sentenza in commento, tocca molti punti rilevanti, propri della ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario e non sempre chiari.
In sede di accertamento non deve essere infatti fornita la prova della pretesa fiscale, ma semplicemente la motivazione della medesima pretesa.
L’insufficienza probatoria non deve essere quindi confusa con la validità della motivazione, ritenendo che l’insufficienza possa essere talmente grave da comportare l’inadeguatezza della motivazione sottesa all’accertamento.
Equiparazione automatica non ammissibile
Non è ammissibile infatti l’equiparazione automatica tra mancanza di prova e difetto di motivazione.
Il problema, in caso anche di mancata produzione del PVC, non riguarda quindi la motivazione dell’accertamento, ma semmai la prova dei fatti contestati.
In sede di accertamento, come detto, vista la funzione dell’avviso di mera provocatio ad opponendum, è sufficiente dunque che tale motivazione sia adeguata.
La prova, invece, può (e deve) essere fornita in sede processuale.
Nella sede cioè in cui la prova svolge la propria funzione: “convincere” il giudice.
Altro importante tema trattato nella sentenza in commento è poi quello dei poteri istruttori delle Commissioni Tributarie.
L’art. 7, comma 1, Dlgs. 546 del 1992 stabilisce a tal proposito che “Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta”.
Tanto premesso, il principio che emerge dalla giurisprudenza sull’interpretazione dell’art. 7, comma 1, Dlgs 546 del 1992 è quello per cui il potere di indagine autonoma del giudice tributario è esercitabile, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, quando gli elementi di giudizio già in atti od acquisiti non siano sufficienti per pronunziare una sentenza ragionevolmente motivata.
Questo potere sopravvive alla riconosciuta natura dispositiva del processo tributario, sancita anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 109 del 2007, che ha così delineato i limiti dei poteri di cui all’art. 7 cit, anche a seguito dell’abrogazione legislativa del comma 3 dell’art.7 del Dgs 546/1992, che affermava che “è sempre data alle Commissioni tributarie la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”, e che, quindi, consentiva un vero e proprio potere d’ufficio in “supplenza” della parte probatoriamente inerte.
La stessa Cassazione, poi, con Ord. n. 16171 del 2018 ha quindi ribadito che “Nel processo tributario, il potere del giudice di disporre d’ufficio l’acquisizione di mezzi di prova non può essere utilizzato per supplire a carenze delle parti nell’assolvimento dell’onere probatorio a proprio carico, ma solo, in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti”.
In tal senso, poi, la Cassazione (Cass., Sez. V, n. 955 del 2016), dopo avere premesso che “l’art. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, laddove attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, e dunque anche nell’ora abrogato terzo comma (che attribuiva “alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”), dev’essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma gli attribuisce solamente un potere istruttorio in funzione integrativa, e non integralmente sostitutiva, degli elementi di giudizio (Cass. Civ., Sez. 5, n. 673 del 15/01/2007)”, ha precisato che “Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine di integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia (cfr. Cass. Civ., Sez. 5, n. 24464 del 17/11/2006, Rv. 594275; n. 14960 del 22/06/2010, Rv. 613988) …”.
Il valore degli indizi e delle presunzioni
Al di là dello specifico caso processuale giova poi evidenziare che il giudizio tributario non ha natura esclusivamente impugnatoria, bensì di impugnazione/merito, con la conseguenza che spetta al giudice tributario il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva emergenti in giudizio.
Va però anche considerato che quest’attività di valutazione nel merito trova fondamento e limite, da un lato, nell’atto impositivo impugnato, non potendo il giudice tributario prendere in esame elementi diversi da quelli dedotti dall’Amministrazione finanziaria e, dall’altro, nella regola generale dell’onere della prova e nei caratteri di indipendenza e terzietà che deve connotare la giurisdizione tributaria, non potendo il giudice tributario ricercare d’ufficio le prove in luogo della parte che ne sarebbe onerata (cfr., Cass., Ordinanza n. 4762 del 24/02/2020).
In conclusione, un ultimo punto trattato nella sentenza riguarda il valore degli indizi e delle presunzioni.
Quanto alla corretta applicazione delle regole in tema di prova per presunzioni, nel processo tributario, per la formazione della prova critica, valgono i medesimi criteri di cui all’art. 2729 c.c., laddove la “precisione” va riferita all’indizio costituente il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso sia ben determinato nella realtà storica; la “gravità” va ricollegata al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto, che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto; e la “concordanza”, infine, richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr., Cass., n. 15454 e n. 2482 del 2019).
In tal senso la difformità fra il corrispettivo di cessione ed il valore normale desunto dalle quotazioni OMI rappresenta solo una mera presunzione semplice, laddove l’esistenza di attività non dichiarate può essere sì desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste però siano appunto gravi, precise e concordanti, con la conseguenza che l’accertamento di un maggiore reddito derivante dalla cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene, quale risultante dalle quotazioni OMI (cfr., Cass., n. 9474 del 12/4/2017).
In termini più generali, la prova per presunzioni, tipica del processo tributario, è una prova indiretta, basata su di un procedimento d’ordine logico che, partendo da uno o più fatti noti o certi, permette di desumere in via di ragionevole consequenzialità, l’esistenza del fatto ignoto.
Quanto più alta è la probabilità che il fatto ignoto sia realmente conseguenza del fatto noto, tanto maggiore è la rilevanza probatoria della presunzione.
L’unica garanzia necessaria consiste nel fatto che il complesso di presunzioni non si risolva in una semplice induzione ipotetica e soggettiva.
E infatti il giudice, chiamato a esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento dei fatti, deve sempre esplicitare il criterio logico posto a base del suo convincimento, tenendo conto che il relativo procedimento è articolato in due momenti valutativi: il primo, di tipo analitico, volto a selezionare gli elementi che presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria, il secondo, di tipo sintetico, tendente ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva.
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