Sulla caparra penitenziale si paga il 3 per cento di registro al momento del recesso

Emiliano Marvulli - Imposte di registro, ipotecarie e catastali

Quale regime fiscale ai fini dell'imposta di registro si applica alla caparra penitenziale in caso di recesso? L'Ordinanza della Corte di Cassazione

Sulla caparra penitenziale si paga il 3 per cento di registro al momento del recesso

Ai fini dell’imposta di registro, la caparra penitenziale ricade nell’ambito applicativo dell’articolo 28 del DPR n. 131 del 1986, in quanto l’esercizio del diritto di recesso ha gli stessi effetti della risoluzione.

Di conseguenza, all’ammontare previsto quale corrispettivo del recesso si applica l’aliquota del 3 per cento, ma solo al momento del suo eventuale esercizio e dello scioglimento del vincolo contrattuale, riconducibile alla clausola contrattuale.

Resta salva, da un lato, l’applicazione dell’aliquota dello 0,5 per cento in presenza di quietanze e, dall’altro lato, l’imputazione dell’imposta pagata a quella principale dovuta per la stipulazione del contratto definitivo, laddove il diritto di recesso, conferito in un contratto preliminare, non sia esercitato e la somma corrisposta a titolo di caparra penitenziale si traduca in un acconto o saldo del prezzo.

Questo l’articolato principio contenuto nell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 12398 del 7 maggio 2024 in tema di regime fiscale applicabile alla caparra penitenziale, che viene trattenuta dal promittente venditore per effetto dell’esercizio del diritto di recesso da parte del promittente acquirente.

Sulla caparra penitenziale si paga il 3 per cento di registro al momento del recesso

La pronuncia trae origine dal ricorso proposto da un notaio avverso una serie di avvisi di liquidazione, con cui l’Agenzia delle Entrate ha rettificato l’imposta di registro dovuta in ordine al contratto preliminare stipulato tra le parti, applicando alla somma pattuita a titolo di caparra penitenziale l’aliquota del 3 per cento in luogo di quella di 0,5 per cento.

La controversia giungeva sino in Cassazione a seguito del ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, che denunciava violazione e falsa applicazione dell’articolo 9 della tariffa allegata al DPR n. 131 del 1986, atteso che la caparra penitenziale non è espressamente prevista dalla nota dell’art. 10 della tariffa e va, quindi, assoggettata all’aliquota del 3 per cento di cui all’art. 9, che disciplina, in via residuale, tutte le disposizioni non altrove previste.

Dal punto di vista civilistico, ai sensi dell’art. 1386 c.c. la caparra penitenziale ha la funzione di corrispettivo del recesso ed il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella ricevuta, se esercita il relativo diritto di recesso.

Si tratta di una pattuizione, collegata ad un altro contratto, che attribuisce un diritto potestativo di recesso a fronte di un corrispettivo e che, quindi, ha un contenuto patrimoniale.

Ai fini dell’individuazione del regime impositivo della caparra penitenziale, la Corte di Cassazione ha in primo luogo escluso l’applicazione della disciplina prevista per la caparra confirmatoria, attesa la differenza strutturale e funzionale delle due clausole.

Ciò premesso, la disciplina applicabile alla caparra penitenziale va rinvenuta nell’articolo 28 del DPR n. 131 del 1986, ai sensi del quale la risoluzione del contratto è soggetta all’imposta in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto e, laddove sia previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’articolo 6 o quella prevista dall’articolo 9 della parte prima della tariffa.

Lo scioglimento del contratto derivante dall’esercizio del diritto di recesso ha, difatti, gli stessi effetti di quelli della risoluzione del contratto.

Quale imposta si applica allo scioglimento del contratto per recesso?

Da tale premessa deriva, quindi, che laddove si verifichi lo scioglimento del contratto in conseguenza dell’esercizio del diritto di recesso, sull’ammontare previsto quale corrispettivo per il recesso si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa del DPR n. 131 del 1986 (e, cioè, 3 per cento), salva l’ipotesi in cui il corrispettivo sia oggetto di quietanza, assoggettata, ai sensi dell’art. 6 della citata tariffa, all’aliquota dello 0,5 per cento.

Pertanto, l’aliquota applicabile in via ordinaria alla caparra penitenziale è quella di cui all’art. 9 della prima parte della tariffa, indicata dall’Agenzia, ma, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente Amministrazione, non si applica al momento della registrazione del contratto in cui è inserita la pattuizione, ma solo in caso di scioglimento del contratto per effetto dell’esercizio del diritto di recesso.

“Ai fini dell’imposta di registro, la caparra penitenziale, che è un negozio accessorio, da cui deriva l’attribuzione del diritto di recesso a fronte della previsione di un corrispettivo per il suo esercizio, ricade nell’ambito applicativo dell’art. 28 del DPR 131 del 1986, in quanto l’esercizio del diritto di recesso ha gli stessi effetti della risoluzione, sicché all’ammontare previsto quale corrispettivo del recesso si applica l’aliquota del 3 per cento di cui all’art. 9 della parte prima della tariffa del DPR n. 131 del 1986, ma solo al momento del suo eventuale esercizio e dello scioglimento del vincolo contrattuale, riconducibile alla clausola contrattuale, salva, da un lato, l’applicazione dell’aliquota dello 0,5 per cento di cui all’art. 6 della parte prima della tariffa del DPR n. 131 del 1986 in presenza di quietanze e, dall’altro lato, l’imputazione dell’imposta pagata a quella principale dovuta per la stipulazione del contratto definitivo, laddove il diritto di recesso, conferito in un contratto preliminare, non sia esercitato e la somma corrisposta a titolo di caparra penitenziale si traduca in un acconto o saldo del prezzo.”

Questo, quindi, il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione.

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