Guida alla caparra confirmatoria attraverso l'analisi di un caso pratico relativo a un contratto preliminare di vendita e un avviso di accertamento per omessa fatturazione
La Corte di Cassazione, con la datata ma sempre attuale Ordinanza numero 29859/2020, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di disciplina fiscale su caparra confirmatoria.
Approfittiamo quindi di questo caso pratico per analizzare una fattispecie importante e centrale nel sistema fiscale.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva notificato alla società contribuente un avviso di accertamento, con il quale era stata ripresa a tassazione l’Iva per omessa fatturazione e registrazione di operazioni imponibili.
In particolare, l’Amministrazione finanziaria aveva fondato la pretesa sulla circostanza che, relativamente ad un contratto preliminare di vendita, stipulato dalla società contribuente con un acquirente con il quale si era obbligata a vendere un immobile in corso di costruzione, non era stata emessa fattura e versata l’Iva sul prezzo di vendita ricevuto a titolo di acconto.
La disciplina fiscale in tema di caparra, l’Ordinanza numero 29859: la vicenda
Avverso la pretesa impositiva la società contribuente aveva proposto ricorso, contestando la qualificazione dell’importo versato quale acconto, e dovendo invece, a suo avviso, essere considerato quale caparra confirmatoria, con conseguente non sottoponibilità dell’operazione all’Iva.
La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso, mentre la Commissione Tributaria Regionale aveva accolto l’appello dell’Agenzia, in particolare ritenendo che dall’esame del contenuto delle clausole contrattuali, nonché dalla funzione codicistica della caparra confirmatoria, dovesse ritenersi che la somma versata dal promittente acquirente andasse qualificata in realtà come acconto sul prezzo di vendita.
Avverso tale pronuncia la società contribuente proponeva infine ricorso per cassazione, censurando la sentenza per violazione dell’art. 6, quarto comma, Dpr. n. 633/1972, degli artt. 1385 e 1362, cod. civ., nonché per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
In particolare, la società lamentava la mancata considerazione della volontà manifestata dalle parti con la clausola di cui all’art. 7 del contratto preliminare, nella quale le stesse avevano stabilito che l’importo versato sarebbe stato computato per intero nel prezzo della vendita solo all’atto del rogito, sicché, al momento in cui l’importo era stato corrisposto, il titolo della corresponsione non aveva finalità solutoria.
Secondo la Suprema Corte, tuttavia, la censura era infondata nella parte in cui prospettava un vizio di violazione di legge ed inammissibile nella parte in cui si censurava la sentenza per vizio di motivazione.
La disciplina fiscale in tema di caparra: distinzione tra fatto generatore ed esigibilità iva
Con riferimento al primo profilo, i giudici di legittimità osservano che la stessa Cassazione (Cass., 22 febbraio 2015, n. 10606) ha precisato che l’art. 10, nn. 1 e 2, della sesta direttiva comunitaria, considera fatto generatore dell’imposta quello
“...per il quale si realizzano le condizioni di legge necessarie per l’esigibilità dell’imposta”, e ravvisa l’esigibilità dell’imposta nel momento a partire dal quale l’erario può far valere il diritto al pagamento dell’imposta, anche se esso può essere differito, chiarendo (numero 2) che “il fatto generatore dell’imposta si verifica e l’imposta diventa esigibile all’atto della cessione di beni o della prestazione di servizi”
La distinzione tra fatto generatore ed esigibilità dell’Iva, rileva ancora la Corte, è stata poi ulteriormente precisata dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. U., 21 aprile 2016, n. 8059), che hanno affermato che “l’ordinamento nazionale non disconosce, ma presuppone, la distinzione concettuale tra fatto generatore ed esigibilità dell’imposta (mantenendo il primo rigorosamente ancorato al dato temporale della concreta esecuzione dell’operazione imponibile e riservando al pagamento il solo ruolo di condizione di esigibilità dell’imposta)”, essendo il primo termine da riferirsi alla genesi dell’obbligazione tributaria, e il secondo all’attualità della pretesa dell’Erario alla relativa riscossione.
La giurisprudenza comunitaria, peraltro, ha avuto modo di precisare che l’imposta può diventare esigibile nello stesso tempo o dopo l’avverarsi del fatto generatore, ma, salvo disposizione contraria, non prima di questo (Corte giust. 21 febbraio 2006, causa C-419/02, BUPA Hospitals Ltd, Goldsborough Developments Ltd, punto 46).
In questo quadro ricostruttivo, basato sulla distinzione concettuale tra presupposto dell’imposta e sua esigibilità, secondo la Corte, andava comunque ulteriormente osservato che l’art. 10, n. 2, comma 2 della sesta direttiva (di tenore corrispondente, nell’ordinamento interno, all’art. 6, comma 4, del Dpr. n. 633/72) si discosta da tale ordine cronologico, prevedendo che, nel caso di versamento di un acconto, l’Iva diventa esigibile senza che la cessione o la prestazione siano state ancora eseguite.
Affinché, in tal caso, l’imposta possa diventare esigibile, occorre, peraltro, che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già noti alle parti e, in particolare, che, nel momento del versamento dell’acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati (Corte giust. causa C- 419/02, punto 48).
E ciò in quanto, come ancora chiarito dalla Cassazione, nel caso di anticipato pagamento (come in quello di anticipata fatturazione dell’acquisto), il contenuto economico dell’operazione si considera già, in tutto o in parte, realizzato, dando vita al presupposto fiscalmente sufficiente per la sua imponibilità, sia pure limitatamente all’importo pagato o fatturato (Cass., 16 dicembre 2011, n. 27141; vedi anche Cass., 17 gennaio 1998, n. 371; 20 dicembre 1994, n. 10952 e 8 giugno 1992, n. 7056; in linea, anche Cass., 12 maggio 2008, n. 12192, relativamente al versamento di un acconto a corredo della stipulazione di un contratto preliminare di compravendita di immobile, poi risolto).
La disciplina fiscale in tema di caparra: alcune precisazioni sul contratto prelimiare
Tanto premesso rispetto ai principi generali, con specifico riferimento alla fattispecie in esame, occorreva dunque procedere ad una ulteriore precisazione.
Nel caso in esame, il pagamento dell’importo, come visto, era conseguente alla stipula del contratto preliminare.
E su tale fattispecie, la Corte ha già precisato (Cass. civ., 20 maggio 2015, n. 10306; Cass. civ., 8 febbraio 2019, n. 3736; Cass. civ., 17 marzo 2020, n. 7340) che i contratti preliminari determinano l’insorgere dell’obbligo di fare, ossia della prestazione del consenso per la stipulazione dei definitivi, sicché l’obbligo discende dal contratto preliminare e non già dal versamento della caparra, con la conseguenza che il versamento della caparra non può essere considerato come corrispettivo del primo.
Sotto tale profilo, tenuto conto delle autonome funzioni che assume il versamento di un importo in sede di stipula di un contratto preliminare (anticipazione del prezzo, nel caso di regolare esecuzione del contratto preliminare; risarcimento forfetario, in caso d’inadempimento di questo), occorre, allora distinguere, ai fini dell’assoggettabilità all’Iva, tra il caso del regolare adempimento del contratto preliminare e quello dell’inadempimento.
Mentre nel primo caso la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei contratti definitivi, assoggettabili ad Iva, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell’imposta, in base al Dpr. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, l’inadempimento ne propizia il trattenimento, risarcendo, in tal modo, il promittente venditore, che, in quanto tale, non costituisce il corrispettivo di una prestazione e, di conseguenza, non fa parte della base imponibile dell’Iva (Corte giust. 18 luglio 2007, causa C-277/05, Societe thermale d’Eugenie-les-Bains, punto 32).
Pertanto, attesa la pluralità di funzioni che la corresponsione della caparra può assumere nell’ambito del regolamento negoziale del contratto preliminare stipulato dalle parti, la corretta individuazione della natura dell’importo versato a titolo di caparra richiede un’attività di accertamento della effettiva volontà delle parti da parte del giudice di merito.
E sotto tale profilo, rileva la Corte, il giudice di appello aveva compiuto una valutazione di merito, diretta alla interpretazione della volontà delle parti, valorizzando diverse circostanze fattuali, quali il fatto che le parti avevano previsto a carico della sola parte venditrice l’obbligo di versamento di una multa penitenziale nell’ipotesi di recesso convenzionale, nonché l’entità della somma versata, rappresentante la quasi totalità del prezzo del bene promesso in vendita, pervenendo alla considerazione conclusiva che la volontà negoziale espressa dalle parti con la clausola in esame dovesse essere interpretata quale anticipo del prezzo, ed escludendo, pertanto, che le stesse avessero inteso perseguire la finalità propria della caparra confirmatoria.
La circostanza, quindi, evidenziata dalla ricorrente, che solo al momento del rogito definitivo l’importo versato sarebbe stato computato per intero nel prezzo di vendita, non ne faceva venire meno l’assoggettamento all’Iva, dato che, secondo l’assunto del giudice di merito, allo stesso versamento doveva essere attribuita la qualifica di acconto sul prezzo, escludendo che, al medesimo versamento dovesse essere riconosciuta una funzione di garanzia del regolare adempimento del contratto (cfr., Cass. civ, 20 ottobre 2020, n. 22825, punto 17).
Esclusa la finalità risarcitoria, in questa prospettiva, la circostanza che il versamento dell’importo sarebbe stato computato per intero nel prezzo della vendita solo all’atto del rogito non assumeva quindi rilievo decisivo, potendosi peraltro sempre adottarsi, in caso di mancata stipula del contratto definitivo (circostanza non riscontrabile nella vicenda), la procedura di variazione di cui al Dpr. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26 (cfr., CGUE 22/02/2018, in causa C-396/16, T-2).
Il motivo di censura, inoltre, come detto, era inammissibile nella parte in cui si censurava la sentenza prospettandosi una questione di interpretazione di una specifica previsione contrattuale, dato che questa non costituiva “fatto” decisivo per il giudizio, in tale nozione dovendosi far rientrare gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (in tal senso, vedi Cass., 8 marzo 2017, n. 5795).
La disciplina fiscale in tema di caparra: l’orientamento di legittimità
Peraltro, aggiunge la Corte, secondo il costante orientamento di legittimità, (da ultimo, Cass. civ., 29 novembre 2018, n. 30865; conf., Cass. civ., 14 febbraio 2012, n. 2109; Cass. civ. 29 luglio 2016, n. 15763)
“l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto”
Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante la specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. civ. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. civ. 11 marzo 2014, n. 5595; Cass. civ., 27 febbraio 2015, n. 3980; Cass. civ., 19 luglio 2016, n. 14715).
E, nella fattispecie, il giudice del gravame aveva, in primo luogo, osservato che le parti avevano fatto unicamente riferimento al termine “caparra”, senza ulteriore qualificazione, procedendo poi ad una valutazione complessiva della regolamentazione pattizia, al fine di valutare se, in base agli accordi presi, al versamento della somma al momento della stipula del contratto preliminare le parti avevano inteso attribuire una finalità riconducibile a quella propria della caparra confirmatoria, ovvero se lo stesso era da qualificarsi come mero acconto di quanto complessivamente dovuto.
Il ragionamento ermeneutico seguito dal giudice di appello si fondava, quindi, in prima battuta, sulla non univocità dell’espressione utilizzata (caparra), e poi, in conformità con quanto previsto dall’art. 1362, cod. civ., sull’attività interpretativa oltre il senso letterale delle parole utilizzate, da utilizzarsi quando il complessivo regolamento negoziale porti a chiarire meglio il senso e la portata della previsione contrattuale utilizzata.
In tal senso, secondo la Cassazione, la valutazione compiuta dal giudice in ordine alla corretta qualificazione del versamento dell’importo al momento della stipula del contratto preliminare, non si poneva quindi in termini contrastanti rispetto ai principi ermeneutici stabiliti dall’art. 1360, cod. civ., avendo correttamente provveduto a valutare l’esatta funzione della caparra confirmatoria e ritenuto non riconducibile ad essa la specifica disciplina pattizia prevista dai contraenti.
Tanto detto in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova evidenziare quanto segue.
Va in tali casi in particolare evidenziata (e valorizzata) la circostanza dell’immediata immissione nel possesso del bene, anteriormente alla stipula del contratto definitivo, in capo al promissario acquirente e, soprattutto, l’ammontare della caparra rispetto al corrispettivo pattuito.
In tale senso, la Corte costituzionale ha del resto espressamente attribuito rilievo, ai fini del necessario giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria, alla sproporzione tra caparra ed intero valore delle prestazioni oggetto del contratto (Corte cost. ord. n.248/2013 e Corte cost. ord. n. 77/2014).
É oggi chiaro peraltro che l’esercizio della funzione accertativa/interpretativa riguarda anche la qualificazione delle attività negoziali e quindi l’individuazione dell’esatto regime fiscale di riferimento, laddove la caparra confirmatoria, prevista dall’art. 1385 c.c., è qualificata dalla dottrina come un patto accessorio, con causa autonoma e funzione c.d. eclettica (Cass. 11356/06; Cass. 9040/06), volta a garantire l’esecuzione del contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte ed indicando, in sostanza, la preventiva e forfettaria liquidazione del danno derivante dal recesso cui la parte è costretta a causa dell’inadempimento della controparte.
Caparra confirmatoria e acconto: la differenza
L’acconto, invece, svolge la funzione, completamente diversa, di adempimento parziale preventivo.
Di conseguenza, mentre entrambe le fattispecie configurano la dazione di una somma di denaro, una è data a titolo di mera anticipazione della prestazione principale (acconto), l’altra (caparra confirmatoria) assume funzione di garanzia e di liquidazione preventiva del danno in caso di inadempimento, e solo in caso di adempimento sarà imputata alla prestazione principale, ex lege ai sensi dell’art. 1385, co. 1, c.c.
Ne discende, allora, che, mentre la caparra confirmatoria, trattandosi di un patto accessorio con causa autonoma, richiede un’espressa manifestazione delle parti in ordine alla sua costituzione, l’acconto viene realizzato con la semplice dazione di moneta, non richiedendosi qualificazioni espresse in tal senso.
Nel caso di specie era allora evidente che, al di là della dizione utilizzata, certo non sufficiente per la qualificazione di un negozio giuridico, l’intenzione delle parti era di attribuire a tale dazione la funzione di un acconto del prezzo.
Secondo la stessa Corte il titolo di caparra della somma data deve potersi desumere dall’effettiva intenzione delle parti, “non essendo sufficiente neppure il mero elemento formale della denominazione come «caparra» adoperata dalle parti in riferimento al versamento” (ex plurimis, Cass. 17 maggio 1985, n. 3014).
Ed è ius receptum che, nel dubbio se la somma di danaro sia stata versata a titolo di acconto sul prezzo o a titolo di caparra, si deve ritenere che il versamento sia avvenuto a titolo di acconto sul prezzo
“poiché non si può supporre che le parti si siano assoggettate tacitamente ad una “pena civile”, ravvisabile nella funzione della caparra confirmatoria” (Cassazione n. 10874/1994)
Per parlare di corrispettivo di una prestazione, ai fini IVA, è dunque necessaria (e sufficiente) la sussistenza di un nesso diretto tra servizio reso e controvalore ricevuto, dovendosi accertare che le somme versate costituiscano l’effettivo corrispettivo di una specifica prestazione fornita nell’ambito di un rapporto giuridico in cui avviene uno scambio di reciproche prestazioni.
Con particolare riferimento poi al caso di indennità forfetaria di scioglimento dal vincolo contrattuale (nella specie, del trattenimento della caparra a titolo di indennità forfettaria di recesso), versata ai fini del risarcimento del danno subìto per effetto della rinuncia, la Corte comunitaria rileva che tale indennità è priva del citato nesso diretto, e, in quanto tale, non soggetta a Iva (cfr., Corte di Giustizia, Société thermale d’Eugénie-les-Bains, cit., punti 33-35).
E coerentemente con la disciplina comunitaria l’art. 15, primo comma, lett. a), Dpr. n. 633/1972, infatti, esclude le somme dovute a titolo di penalità per ritardi o inadempimenti (v. Cass. n. 17633 del 27/06/2008; Cass. n. 4743 del 11/05/1998). Ma di caparra deve effettivamente trattarsi.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Caparra confirmatoria: significato, IVA e codice civile