Le alte cifre relative all'evasione fiscale in Italia potrebbero essere addirittura superiori, dato che nell'analisi del tax gap non rientra uno dei principali problemi del sistema tributario italiano: l'elusione e l'abuso del diritto.
Anche il diritto tributario soggiace alla nota differenza tra giustizia e diritto.
Una delle prime nozioni che qualsiasi studente di giurisprudenza impara fin dai primi anni di facoltà è che i due concetti non sempre sono compatibili, anzi.
E nel diritto tributario, spesso, questa differenza si sente ancora di più. Il gioco sulle entrate tributarie, del resto, è “sporco”, se è vero che l’Agenzia delle Entrate incassa ogni anno dalla lotta all’evasione fiscale solo una minima parte di ciò che viene accertato o contestato a seguito di ispezioni e verifiche e ciò che viene contestato è naturalmente solo una minima parte di ciò che viene evaso, non potendo certo l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza controllare a tappeto milioni e milioni di contribuenti.
Non c’è dubbio che l’evasione fiscale sia un fenomeno molto complesso. Si va infatti dall’evasione classica della contabilità in nero e dei ricavi non dichiarati, agli illeciti rimborsi, alle grandi frodi di rilevanza comunitaria, con operazioni inesistenti e società cartiere, alla più sottile elusione fiscale ed abuso, al transfer pricing, alle esterovestizioni nei paradisi fiscali etc. etc. (l’elenco potrebbe essere quasi infinito).
Non si può del resto pensare realisticamente di poter abbassare le tasse, senza un’efficace azione di (responsabile) contrasto all’evasione (ed in particolare di contrasto alle grandi frodi e all’abuso del diritto).
L’evasione fiscale, infatti, non solo è ingiusta, perché agisce contro gli altri cittadini, in un contesto da homo homini lupus, ma, soprattutto, al di là di giudizi morali o etici, è illegale, cioè contro la legge, la base cioè della nostra comunità e del nostro vivere quotidiano.
Combattere l’evasione fiscale è dunque uno dei primi compiti dello Stato, laddove l’attuale strategia del Governo in tema di contrasto all’evasione fiscale è in gran parte oggi incentrata sull’evoluzione tecnologica del Fisco: la fatturazione elettronica e l’incentivazione alle transazioni tracciabili, come strumento per far emergere il “nero”.
Il fenomeno dell’evasione è però, come detto, un fenomeno molto complesso, che non può e non deve essere limitato alla omessa fatturazione del falegname, idraulico, elettricista, solo per richiamare alcune delle categorie a cui viene di solito imputata la famosa frase “con fattura 100, senza 80”.
Evasione fiscale, elusione ed abuso del diritto
Per quanto importante e doveroso sia questo tipo di contrasto all’evasione, non è certo questa che, almeno in termini numerici, è quella determinante rispetto al monstre che è l’attuale tax gap in Italia, laddove il “Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva 2020” ci dice che per i soli tributi gestiti dall’Agenzia (Irpef, Ires, Iva e Irap), i valori stimati dell’evasione ammontano a 79,8 miliardi di euro nell’anno 2018, con un miglioramento rispetto al 2017 di circa 5 miliardi di euro, dovuto anche al miglioramento della tax compliance.
Ma le cifre in realtà potrebbero essere anche superiori, dato che in quel conteggio non rientra quello che forse è il principale problema, anche in termini di mancato gettito, del nostro sistema tributario: l’elusione/abuso del diritto. E senza considerare che senz’altro non vi rientra la tassazione collegata ai proventi illeciti (altro tema su cui si potrebbe parlare per ore).
Alle grandi società e multinazionali non serve infatti fare grandi frodi o (anco meno) omettere la fatturazione.
Basta un “serio” programma di pianificazione fiscale, che sfruttando le lacune, anche internazionali, degli Ordinamenti e, semplicemente, interpretando pro domo loro alcuni commi delle norme, gli consentono di pagare meno imposte del “povero” falegname (anzi spesso di essere in perdita, anche se solo fiscale).
Ma cos’è l’elusione, o, meglio, l’abuso del diritto, nel cui concetto l’elusione è ormai confluita?
Dal punto di vista giuridico (e in particolare fiscale), oltre che da un punto di vista latu sensu etico, l’abuso del diritto è un fenomeno che non può essere consentito, perché contrario ai principi dell’ordinamento tributario e causa di evidenti distorsioni sostanziali, sia sul piano economico che sociale.
A seguito di un lungo cammino prima giurisprudenziale e poi normativo, nel nostro Ordinamento vige un principio generale (art. 10 bis dello Statuto del Contribuente) in forza del quale il contribuente non può trarre indebiti vantaggi dall’uso distorto di strumenti giuridici, che, pur non contrastando di per se stessi con alcuna specifica disposizione, siano stati posti in essere al solo o principale scopo di contenere il debito tributario.
Questo è peraltro un principio comune anche all’ordinamento Europeo, preesistente ed immanente alla emanazione delle singole leggi antielusive.
La fonte di tale principio, come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza della Cassazione, va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano.
L’abuso del diritto è dunque ciò che “avrebbe dovuto essere” per l’Ordinamento.
L’operazione abusiva rappresenta in questi casi solo il mezzo, lo schermo per non dover pagare le maggiori imposte dovute, che, invece, ponendo in essere l’operazione consentita dall’Ordinamento, avrebbero dovute essere pagate.
Ciò che è certo è che l’Ordinamento giuridico non può consentire l’aggiramento delle sue norme, al mero fine del perseguimento di illeciti vantaggi fiscali. Questo è esattamente lo scopo del riconoscimento nel nostro Ordinamento dello specifico principio dell’abuso del diritto.
Elusione fiscale o abuso del diritto, dalla codificazione all’unificazione
Prima della codificazione del principio di abuso del diritto nel nostro Ordinamento, stabilire se si stesse parlando di elusione (illegittima), di abuso del diritto (illegittimo), o di risparmio di imposta (legittimo), comportava del resto uno sforzo argomentativo ed interpretativo notevole, laddove il confine tra evasione ed elusione non è sempre infatti ben individuabile.
Lo scopo, infatti, è pur sempre lo stesso: la sottrazione al proprio obbligo di contribuzione alle spese pubbliche in ragione del principio di capacità contributiva.
Ciò che cambia è solo il metodo di perseguimento di tale scopo illecito: diretto nel caso dell’evasione, mediante l’occultamento dei redditi; indiretto nel caso dell’elusione/abuso, che, in sostanza, si verifica quando il soggetto passivo d’imposta si sottrae all’imposta con la “dissimulazione” della propria capacità contributiva.
Eludere una norma tributaria significa quindi violarla in maniera obliqua, aggirarla tramite la scelta di operazioni contrattuali e negozi il cui solo (o comunque principale) scopo è quello di ridurre l’onere fiscale.
Mentre con l’evasione il contribuente occulta il presupposto d’imposta, con l’elusione il contribuente non occulta, ma impedisce, almeno formalmente, l’insorgere del presupposto stesso.
Gli accadimenti economici, infatti, sono realmente esposti così come si verificano, ma, nella sostanza, la norma che inquadra il presupposto di imposta riguarda in realtà differenti fattispecie, giustificate da altre cause e finalità.
La differenza più difficile da individuare era però proprio quella tra elusione ed abuso del diritto (poi unificati finalmente in un’unica fattispecie), trattandosi sostanzialmente di uno stesso fenomeno, in cui la distinzione si basava solo sul fatto se la fattispecie oggetto di contestazione fosse o meno prevista, positivamente, tra quelle tassativamente indicate dall’art. 37 bis del DPR 600/73.
L’abuso del diritto era dunque uno sviluppo teorico/giurisprudenziale in chiave antielusiva teso a sopperire alla mancanza di una clausola generale volta ad impedire la realizzazione di operazioni negoziali, il cui scopo essenziale fosse il mero risparmio di imposta.
Prima della sua codificazione nell’art. 10 bis dello Statuto del contribuente, l’“ingiustizia” dell’abuso, non essendo riferibile a parametri normativi diretti e ad una norma tributaria imperativa, che tale lo qualificasse e come tale lo sanzionasse, doveva essere necessariamente riferita ad una clausola metagiuridica insita nell’Ordinamento e riportata alla luce solo grazie alla giurisprudenza.
Poi, anche in ottemperanza ad una specifica raccomandazione comunitaria (la 2012/772/UE), si è introdotta finalmente una norma generale antiabuso, abrogando la precedente norma antielusiva applicabile solo per l’accertamento delle imposte sui redditi ad un numero chiuso di operazioni (articolo 37-bis, Dpr. n. 600/73).
Cosa si intende per abuso del diritto
In sintesi, l’abuso del diritto si configura oggi in presenza di:
- una o più operazioni prive di sostanza economica;
- rispetto solo formale delle norme fiscali;
- realizzazione di un vantaggio fiscale indebito;
- vantaggio fiscale che costituisca l’effetto essenziale dell’operazione.
Non si considerano invece abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, laddove viene anche esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.
Nel procedimento di accertamento dell’abuso del diritto l’onere della prova della condotta abusiva grava dunque sull’Amministrazione finanziaria, mentre il contribuente sarà tenuto a dimostrare la sussistenza delle valide ragioni extrafiscali che stanno alla base delle operazioni effettuate.
L’oggetto della contestazione, in casi di abuso del diritto, è peraltro un’operazione di riqualificazione della fattispecie, secondo la natura fisiologica che l’Ordinamento esige in base al principio di capacità contributiva, alla luce della dimostrazione:
- da parte dell’Ufficio, degli indizi che fanno dubitare della motivazione economica sottesa all’operazione e dei vantaggi fiscali con essa perseguiti;
- da parte del contribuente, viceversa, delle valide ragioni economiche sottese all’operazione contestata; valide ragioni economiche che dunque dovrebbero giustificare anche i vantaggi fiscali ottenuti, da inquadrare, a quel punto, se giustificati, non come illecito vantaggio, ma come legittimo risparmio di imposta.
In conclusione, come dimostra la stessa radice etimologica del termine (ab-uti), l’abuso, inteso come uso “anomalo” del diritto, contrasta con gli scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico.
Nell’odierno contesto sociale, la generalità delle persone avverte come fondamentale l’esigenza (e il valore) che ogni consociato contribuisca alla spesa pubblica in ragione della reale consistenza del proprio reddito e che a nessuno sia consentito di sottrarsi a tale obbligo ricorrendo ad espedienti pur formalmente incensurabili sul piano delle norme positive, con danno sia per l’Erario che per i consociati.
E questo sentire comune viene prima dell’articolo 53 della Costituzione.
Veniva prima dell’articolo 37 bis del DPR 600/73.
E viene prima dell’attuale art. 10 bis della L. n. 212/2000.
Questo sentire comune è alla base del patto sociale su cui si regge lo Stato inteso come comunità.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Etica, fisco ed abuso del diritto