La Corte di Cassazione ha evidenziato che le plusvalenze infraquinquennali sulla rivendita di un immobile classificato ad uso ufficio non sono tassabili se questo è adibito ad abitazione principale
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 17528 del 2024, si è espressa in tema di tassazione plusvalenze per vendite infraquinquennali su immobili catastalmente non adibiti ad abitazione.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva notificato due avvisi di accertamento riguardanti il presunto maggior reddito di euro 40.000 per l’anno 2007, derivante dalla plusvalenza realizzata a seguito di una (ri)vendita infraquinquennale di un immobile in comproprietà, iscritto in catasto in categoria A/10.
Tassazione delle plusvalenze infraquinquennali su immobili classificati in A/10 ma adibiti ad abitazione
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo fondata solo la censura relativa al mancato conteggio da parte dell’Agenzia delle spese documentate sostenute per l’acquisto dell’immobile successivamente ceduto, con conseguente rideterminazione della maggiore imposta dovuta.
I contribuenti proponevano appello, eccependo, per quanto di interesse, l’insussistenza di una plusvalenza tassabile, dal momento che, indipendentemente dalla categoria catastale A/10, l’immobile era stato adibito ad abitazione principale della famiglia e la sua vendita non era finalizzata al perseguimento di un intento speculativo, ma era stata resa necessaria, invece, dalla situazione di crisi familiare sfociata nella separazione personale tra i coniugi.
La Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello e riconosceva l’insussistenza di una plusvalenza tassabile, osservando, in proposito, che la disposizione di cui all’art. 67, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, nell’escludere dalle plusvalenze tassabili le somme ottenute dalla vendita infraquinquennale di immobili adibiti ad abitazione principale, non contiene alcun riferimento alla loro categoria catastale. Aggiungeva inoltre la CTR che l’assegnazione di un immobile ad una categoria catastale non può assumere rilevanza probatoria assoluta in ordine all’utilizzo corrispondente alla classificazione, con la conseguenza che l’inclusione di un immobile in una categoria che normalmente identifica un uso diverso da quello abitativo - come appunto la categoria A/10, che identifica la destinazione ad uso ufficio o studio privato - non precludeva comunque la possibilità di provare, da parte del contribuente, che l’immobile fosse stato effettivamente adibito ad abitazione principale, e, come tale, sottratto per legge all’imposizione fiscale sulla plusvalenza derivante dalla vendita prima del decorso di cinque anni dall’acquisto.
Riteneva quindi il giudice di appello che, nella specie, tale prova fosse stata fornita attraverso la produzione dei certificati di residenza, delle copie delle fatture relative alla fornitura di gas, energia elettrica (per usi domestici) e servizio telefonico, delle copie dei bollettini di pagamento del canone RAI, della tassa rifiuti e delle quote condominiali. Tale documentazione veniva infatti considerata idonea a superare la presunzione di non utilizzo a fini abitativi derivante dall’assegnazione a tale unità immobiliare della categoria catastale prevista per gli uffici e gli studi privati.
L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell’articolo 67 cit., laddove, secondo la ricorrente, non poteva essere considerata “abitazione principale” l’unità immobiliare destinata ab origine ad usi diversi da quello abitativo, come dimostrato dalla classificazione catastale, che, in materia fiscale, assume particolare importanza, senza che potesse rivestire rilievo, ai fini dell’esclusione della presunzione di plusvalenza, la qualificazione “soggettiva” che i contribuenti avessero attribuito all’immobile in relazione alle esigenze connesse al proprio nucleo familiare, e dovendosi avere riguardo esclusivamente alla natura e funzionalità dell’immobile, come appunto cristallizzate nella qualificazione catastale basata sull’accertamento di determinati requisiti tecnici e di autonomia funzionale.
Secondo l’Amministrazione finanziaria la CTR aveva dunque errato, considerando prevalente l’elemento soggettivo - desunto dalla destinazione ad abitazione mediante trasferimento di residenza ed intestazione delle utenze domestiche - su quello oggettivo dell’autonoma funzionalità e caratterizzazione tecnica dell’immobile, in base alla corrispondente classificazione catastale. A sostegno di tale assunto, veniva richiamata la Risoluzione n. 105/2007, secondo cui, ai fini della tassazione delle plusvalenze in esame, un immobile rileverebbe come “abitazione principale” solo se (e a partire dal momento in cui) sia stato accatastato come tale.
Secondo la Suprema Corte la censura era infondata.
Le plusvalenze infraquinquennali su immobili classificati come ufficio ma adibiti ad abitazione principale non sono tassabili
Evidenziano i giudici di legittimità che il legislatore annovera tra i “redditi diversi” assoggettabili a tassazione - sempre che gli stessi non costituiscano redditi di capitale o se non siano conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente - le plusvalenze da cessione di immobili.
Per queste ultime, l’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR ne prevede la tassazione ove “realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari [...]”.
La ragione della imposizione fiscale sulla plusvalenza prodotta tramite un trasferimento infraquinquennale consiste dunque nell’esigenza di tassare una ricchezza prodotta attraverso operazioni di cui si presume un intento speculativo, laddove, secondo l’id quod plerumque accidit, lo speculatore ha interesse a smobilizzare in tempi ragionevolmente brevi l’investimento immobiliare.
Coerentemente, dunque, la stessa norma esclude dal proprio ambito di operatività gli acquisti di immobili poi adibiti ad abitazione principale, proprio perché in questi casi tale destinazione esclude, per sua natura, un intento speculativo all’origine (in tal senso, anche Corte cost., sentenza n. 171/2001), trattandosi di acquisto verosimilmente effettuato per soddisfare l’interesse primario di provvedere al bisogno abitativo, al cospetto del quale il legislatore si disinteressa dell’eventuale plusvalenza generata dalla successiva cessione dell’immobile, anche se perfezionata entro il quinquennio dall’originario acquisto.
La normativa autorizza pertanto a tassare solo ed esclusivamente le plusvalenze derivanti da operazioni immobiliari potenzialmente speculative e tali sono presuntivamente considerate dal legislatore le rivendite di immobili operate nel quinquennio dall’acquisto, salvo che, appunto, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione, tali immobili non siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari. Previsione che, quindi, concorre a definire il perimetro della fattispecie impositiva.
Tassazione delle plusvalenze infraquinquennali e immobili ad uso ufficio adibiti ad abitazione: la posizione della Cassazione
Il punto centrale della questione, rileva la Corte, consiste quindi nella definizione del concetto di “abitazione principale” utilizzato dall’art. 67, comma 1, lett. b), laddove la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 18963/2019) ha affermato che gli elementi che determinano l’esclusione della fattispecie normativa sono, da un lato, il non superamento di un certo intervallo temporale fra acquisto e vendita, e, dall’altro, la destinazione all’uso personale dell’acquirente e dei suoi familiari, secondo criteri oggettivi (cfr., Cass., n. 14270/2016). Occorre, in altre parole, che tale destinazione sia effettiva e non meramente intenzionale, dovendo emergere da una serie di atti aventi estrinsecazione esterna ed idonei a dimostrare la concreta realizzazione di tale adibizione.
Tanto premesso, secondo i giudici, la tesi sostenuta dall’Agenzia delle Entrate, che ricollegava il concetto di abitazione principale esclusivamente alla classificazione catastale, non era suffragata da indici normativi, che danno rilievo, invece, alla oggettiva destinazione abitativa di fatto impressa all’immobile. E del resto lo stesso art. 67, comma 1, lett. b), non fa alcun riferimento alla categoria catastale dell’immobile, richiedendo esclusivamente la destinazione dello stesso ad abitazione principale, laddove anche l’art. 10, comma 3, TUIR, nel disciplinare la deduzione del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale, dispone che per quest’ultima si intende quella nella quale chi la possiede a titolo di proprietà o altro diritto reale oppure i suoi familiari dimorano abitualmente.
E ancora, in modo del tutto analogo, l’art. 15, comma 1, lett. b), TUIR, nel disciplinare le detrazioni per gli oneri consistenti in interessi passivi in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili, contratti per l’acquisto di unità immobiliari da adibire ad abitazione principale entro un anno dall’acquisto stesso, dispone che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente.
Risulta evidente, dunque, che, in questi casi, il legislatore tributario attribuisce rilievo ad una situazione di fatto, consistente appunto nella dimora abituale in un determinato immobile. Poiché la finalità perseguita dal legislatore è quella anti-speculativa non appare infatti coerente con la ratio legis far dipendere l’esclusione dall’ambito di operatività della tassazione dal mero dato formale della “classificazione catastale”, senza consentire al contribuente di provare l’effettiva adibizione dell’immobile ad abitazione principale, nel senso sopra indicato.
E questo anche considerato che la stessa Agenzia, nei suoi documenti di prassi (Risoluzioni n. 136/E dell’8 aprile 2008 e n. 218/E del 30 maggio 2008), ha affermato, sempre con riferimento alla nozione utilizzata dall’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR, che per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente o i suoi familiari dimorano abitualmente, anche a prescindere dalle risultanze dei registri anagrafici, che possono essere smentite da circostanze oggettive, quali l’intestazione delle utenze domestiche, l’utilizzo effettivo dei servizi connessi e l’indicazione del domicilio nella corrispondenza ordinaria.
In conclusione, secondo la Cassazione, grava certamente sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari, con elementi di prova di natura oggettiva e riferiti ad immobili che siano quantomeno “classificabili” (anche se non classificati all’attualità) per uso abitativo. In quest’ottica, la diversa classificazione catastale dell’immobile potrà però solo costituire un elemento indiziario da cui presumere ordinariamente l’inesistenza dei requisiti normativi che legittimano l’esclusione dalla tassazione; ma non potrà impedire al contribuente di dimostrare il contrario.
L’adibizione di un immobile ad uso abitativo in contrasto con la destinazione corrispondente alla categoria catastale può certamente comportare conseguenze giuridiche, anche di carattere sanzionatorio e anche sul piano fiscale (come, ad esempio, in tema di determinazione della base imponibile per le imposte legate alla rendita catastale), ma l’averlo adibito, anche solo di fatto, ad abitazione principale resta certamente rilevante ai fini contemplati dall’art. 67 TUIR.
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