La Corte di cassazione si è espressa sulla disciplina in tema di società di comodo. Una panoramica, attraverso il caso in esame, sulla definizione di «non operatività» e sulla presunzione di un reddito minimo
La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 12218 del 2023, si è espressa in tema di società di comodo.
Nel caso di specie, una società svolgente attività di affitto di ramo d’azienda e di gestione di partecipazioni, aveva proposto istanza di interpello ai fini della disapplicazione, per l’anno d’imposta 2006, della disciplina delle società non operative di cui alla Legge n. n. 724/1994, art. 30.
Società di comodo, il caso in esame: il ricorso dell’Agenzia delle Entrate
L’interpello era stato rigettato dall’Agenzia delle Entrate, che, successivamente aveva poi accertato induttivamente un reddito minimo imponibile, in applicazione delle percentuali previste dal citato art. 30, L. n. 724 del 1994.
In particolare, l’istanza di disapplicazione era stata rigettata in considerazione del fatto che la contribuente non aveva fornito la prova circa l’oggettiva impossibilità di aumentare il canone pattuito in un contratto di affitto di azienda stipulato con altra società e modificabile per mutuo consenso.
Peraltro, secondo l’Ufficio, già al momento della stipula del contratto, avvenuta in tempi recenti rispetto al periodo d’imposta accertato, potevano essere affrontate le problematiche relative ad un canone chiaramente insufficiente a consentire il superamento del test di operatività, e questo anche considerato che le società contraenti avevano lo stesso rappresentante legale, oltre che elementi sostanziali di convergenza d’interessi.
La contribuente impugnava l’atto impositivo e la Commissione Tributaria Provinciale lo accoglieva, con sentenza poi confermata anche in secondo grado.
L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo la violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30 e dell’art. 2697 e 2729 c.c., laddove, secondo la CTR, la contribuente aveva provato la sussistenza di condizioni oggettive che le avrebbero impedito di raggiungere il reddito minimo.
Secondo l’Amministrazione finanziaria, le parti erano nelle condizioni di valutare la congruità del canone da convenire al momento della stipulazione del contratto di affitto, non apparendo giustificabile che le problematiche (compresa l’obsolescenza dei macchinari) esposte nell’interpello per giustificare l’impossibilità di rinegoziare il canone fossero emerse solo successivamente, ad un anno dalla stipula del contratto.
Neppure la conformità del canone pattuito tra le due società rispetto al valore OMI dell’unità immobiliare compresa nel ramo d’azienda affittato poteva del resto essere sintomatica, di per sé, dell’impossibilità oggettiva di richiedere un maggior canone di affitto dell’azienda, essendo non comparabili, funzionalmente ed economicamente, le fattispecie di locazione di capannoni e quella in cui oggetto del contratto di affitto non è semplicemente un immobile, ma l’azienda, ovvero un complesso di beni (mobili ed immobili) organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività d’impresa.
Inoltre, secondo la ricorrente, la CTR aveva errato nel non considerare che, proprio in ragione delle correlazioni di interessi tra le due società, anche gli altri elementi dedotti dalla società per giustificare il mancato raggiungimento del reddito minimo (l’obsolescenza dei macchinari ed il ristretto settore tecnico nel contesto del quale il ramo d’azienda avrebbe potuto essere utilizzato, con conseguente limitazione di possibili altri conduttori interessati) non costituivano impedimenti oggettivi al raggiungimento del cosiddetto reddito minimo, rappresentando piuttosto condizioni contestuali allo specifico contratto concluso.
Società di comodo: l’Ordinanza della Corte di Cassazione
I giudici di legittimità, per quanto di interesse, nel decidere la causa, rilevano che la Corte di Cassazione ha più volte precisato che il legislatore, con La L. n. 724/1994, art. 30, ha inteso disincentivare la costituzione di società “di comodo”, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci, con correlato, indebito, risparmio fiscale – cfr. Cass. n. 12862/2021; Cass. n. 4946/2021; Cass. n. 36365/2021; Cass. n. 1506/2022).
In particolare, secondo la L. n. 724 del 1994, comma 1, art. 30, una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un determinato ricavo figurativo, calcolato, attraverso il test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.
Il mancato raggiungimento di tale soglia, considerato dal legislatore sintomatico della non operatività della società (cfr., ex multis, Cass. n. 4850/2020), fonda quindi la presunzione legale relativa di non operatività.
La contribuente può comunque vincere tale presunzione, dimostrando all’Amministrazione, attraverso l’interpello ovvero in giudizio, le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri normativi (l’art. 37 bis, comma 8, Dpr. 600/73 è stato successivamente abrogato, ma le disposizioni che lo richiamavano devono intendersi oggi riferite all’interpello di cui all’art. 10-bis, L. 27 luglio 2000, n. 212).
La Corte rileva poi che alla presunzione legale di non operatività sancita dal comma 1 dell’art. 30 il legislatore correla, con il comma 3 dello stesso articolo, una seconda presunzione, anch’essa relativa, di reddito minimo, fondata su coefficienti “medi” di redditività degli elementi patrimoniali di bilancio.
In sostanza, la disciplina opera su due diversi livelli:
- ad un primo livello, fornisce la definizione di “non operatività” degli enti (cd. test di operatività);
- ad un secondo livello, per i soggetti che non hanno superato il test di operatività, prevede la presunzione di un reddito minimo (cfr., Cass. 24/01/2022, n. 1898).
La rilevanza delle “oggettive situazioni”, di cui al comma 4-bis della disposizione, si colloca pertanto nell’ambito del “primo livello”, giacché, fornendo la relativa prova, la società si sottrae alla classificazione come “non operativa” (e quindi anche all’eventuale applicazione della successiva e concatenata presunzione di reddito minimo).
La contribuente, ricorda la Cassazione, può comunque proporre la questione dei presupposti della disapplicazione per la prima volta direttamente in giudizio, senza la previa proposizione dell’interpello, che non presenta natura di condizione di procedibilità, laddove, in sede giudiziaria, la prova contraria può riguardare sia il mancato raggiungimento della soglia di operatività, sia il reddito minimo presunto, ben potendo la società evidenziare le circostanze che hanno impedito il raggiungimento della soglia minima e che giustificano la minore entità di componenti positivi.
È stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito sulle scelte imprenditoriali.
Il sindacato del giudice non coinvolge infatti le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo piuttosto alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori, anche attraverso la valutazione di condotte platealmente antieconomiche (cfr. Cass. n. 36365/2021).
Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo, o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore (giacché il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione); ma anche dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva.
Disciplina in tema di società di comodo: le conclusioni della Corte di Cassazione
In termini poi di concreto apprezzamento del “carattere straordinario” delle “oggettive situazioni” di impedimento, la Cassazione sposa l’orientamento giurisprudenziale che dimensiona l’onere della prova in questione (cfr. Cass. n. 3063/2019; Cass. n. 10158/2020):
“non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato.”
Tutto ciò premesso, rileva la Cassazione, la “vicinanza” tra i due centri d’interesse deponeva, nella specie, per la piena riferibilità alla conoscenza, alla volontà e all’interesse delle parti di tutte le caratteristiche dell’azienda affittata, che non potevano pertanto essere considerate “oggettive situazioni” di impedimento.
In conclusione la censura era fondata.
A prescindere dallo specifico caso processuale, giova in sostanza evidenziare che, ai fini della disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, la nozione di impossibilità va intesa in senso “elastico”, identificandosi con uno specifico fatto non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento ordinario dell’attività produttiva (cfr. Cass. n. 23384/2021).
In tal senso, ad esempio, può ritenersi integrato l’impedimento oggettivo, derivante da situazioni indipendenti dalla volontà del contribuente, anche nel caso in cui l’inoperatività della società sia derivata dalla mancanza di autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività (cfr. Cass. n. 1127/2023).
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