I costi di sponsorizzazione sono deducibili anche se sono sostenuti in parti del territorio distanti da quelli in cui l’impresa esercita la propria attività, che prende atto della globalizzazione dei mercati. Questo è il principio dettato dalla Corte di Cassazione, arricchendo un tema già molto disquisito negli anni
L’evoluzione delle tecniche pubblicitarie porta ad escludere che, nell’attuale mercato “globalizzato”, ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza delle spese di pubblicità, debba sussistere un legame territoriale tra l’offerta pubblicitaria e l’area geografica in cui l’impresa svolge la propria attività, né una relazione tra il concetto di spesa e quello di impresa, assumendo rilevanza il costo non tanto per la sua esplicita diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù di una correlazione con un’attività potenzialmente idonea alla produzione di utili.
È questo il principio dettato dall’ordinanza della Corte di Cassazione n. 18726/2024.
Il recupero a tassazione investe spese di sponsorizzazione, per incongruità del costo, da cui ne derivava l’antieconomicità dell’operazione.
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Sponsorizzazioni: il fatto di specie
La C.T.R. ha accolto il gravame interposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della C.T.P. di accoglimento del ricorso della società avverso l’avviso di accertamento con il quale venivano ripresi a tassazione 42.077 euro, in relazione all’anno di imposta 2007, sul totale complessivo delle spese di sponsorizzazione pari a 56.000 euro, attesa l’incongruità del costo da cui ne derivava l’antieconomicità dell’operazione.
Il giudice di seconde cure, nel dettaglio e per quanto ancora d’interesse, ha evidenziato come una volta acclarata la legittimità degli accertamenti fondati sull’antieconomicità era onere del contribuente confutare l’assunto accertativo. In particolare, ha evidenziato come nel caso specifico:
“la generica esposizione del marchio non può che avere ricadute solo localmente, poiché è del tutto improbabile che gli spettatori di partite tenute al di fuori del territorio locale, in virtù della pubblicità vista sul campo da gioco, preferiscano affrontare un viaggio per andare a fare acquisti in un ... più lontano rispetto a quello ubicato nel proprio ambito territoriale, e in considerazione anche del fatto che il messaggio pubblicitario non è mai riferito a specifiche politiche commerciali di sconto o a prodotti venduti a prezzi particolarmente vantaggiosi. Va osservato che la realtà territoriale in cui opera (i due piccoli centri di ... ) è talmente ridotta che è dubbia l’utilità aggiuntiva che essa potesse avere da una spesa del genere anche in ambito territoriale così ristretto, per cui a parere del Collegio non era necessario un investimento di E. 56.000,00. Il fatto che esista un contratto, delle immagini della sponsorizzazione effettuata, non può rendere deducibile qualsiasi costo. Pertanto non si può non concludere che il costo sostenuto non è del tutto antieconomico perché palesemente in contrasto con qualsiasi criterio di razionalità economico, tenuto conto anche che il reddito di impresa deve riguardata tutti i costi sostenuti, anche quelli in pubblicità. Il reddito di impresa, nel caso in esame, è del tutto antieconomico anche alla luce della complessiva situazione del contribuente in esame, perché anche se è vero che presenta un fatturato elevato, tale fatturato è completamente abbattuto dalla mole di costi di cui è gravata l’impresa, tanto da far registrare una perdita negli anni precedenti, ma anche nell’anno 2008”
Da qui il ricorso di parte in Cassazione.
Il pensiero degli Ermellini
La Corte conferma, innanzitutto, un principio da tempo espresso:
“in tema di detrazioni fiscali, le spese di sponsorizzazione di cui all’art. 90, comma 8, della leqqe n. 289 del 2002, sono assistite da una presunzione legale assoluta circa la loro natura pubblicitaria, e non di rappresentanza, a condizione che: a) il soggetto sponsorizzato sia una compagine sportiva dilettantistica; b) sia rispettato il limite quantitativo di spesa; c) la sponsorizzazione miri a promuovere l’immagine ed i prodotti dello sponsor; d) il soggetto sponsorizzato abbia effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale (Cass., 7 giugno 2017, n. 14232), senza che rilevino, pertanto, requisiti ulteriori (Cass., 6 aprile 2017, n. 8981; Cass., 19 gennaio 2018, n. 1420; Cass., 30 maggio 2018, n. 13508; Cass., 6 maggio 2020, n. 8540).”
Il citato art. 90, comma 8, della L. n. 289/2002:
“costituisce norma speciale, destinata a derogare anche al regime generale di deducibilità dei costi previsto dall’art. 109 del T.U.I.R., trattandosi di disposizione che detta peculiari condizioni di deducibilità delle spese di pubblicità che rispondono alle specifiche esigenze del settore di riferimento, ossia delle compagini sportive dilettantistiche; la norma intende perseguire finalità diverse che, con tutta evidenza, possono essere rintracciate nella voluntas legis di approntare un regime agevolativo per quei soggetti che decidono di investire nello sport amatoriale e di favorire - tramite la leva fiscale - la diffusione di questo genere di attività giudicate socialmente utili e degne di protezione, stante anche la rilevanza costituzionale dello sport (cfr. Cass., 27 luglio 2021, n. 21452).”
Il legislatore ha, dunque, stabilito:
“una presunzione assoluta di deducibilità del costo, rendendo non sindacabile la scelta dell’imprenditore di promuovere il nome, il marchio o l’immagine attraverso iniziative pubblicitarie nel settore sportivo dilettantistico; non si può, quindi, negare lo scomputo dei costi di sponsorizzazione sulla base di una asserita assenza di una diretta aspettativa di ritorno commerciale, atteso che una tale soluzione non si porrebbe neppure in linea con la stessa nozione di inerenza, come delineatasi nel tempo, che è di natura qualitativa e non quantitativa (Cass., 20 dicembre 2018, n. 33030; Cass., 16 dicembre 2019, n. 33120; Cass., 4 marzo 2020, n. 6017) e non è, dunque, più basata sulla necessaria riconducibilità dell’onere alla percezione di ricavi da parte dell’impresa che sostiene il costo; neppure è consentita la contestazione della incongruità o dell’antieconomicità del costo, dal momento che nel campo delle sponsorizzazioni è improponibile, se non impossibile, individuare l’ammontare «congruo» di una sponsorizzazione, poiché queste spese, di solito, sono sostenute nella prospettiva di aumentare i ricavi, senza la ben che minima garanzia che tale obiettivo possa essere davvero conseguito (cfr. Cass., 27 luglio 2021, n. 21452, citata).”
Da ultimo, Cass. 14 febbraio 2023, n. 4612 ha statuito che in tema di spese di sponsorizzazione, il regime di cui all’art. 90, comma 8, della L. n. 289 del 2002, nel testo vigente “ratione temporis”, fissa:
“una presunzione assoluta di inerenza e congruità delle sponsorizzazioni rese a favore di imprese sportive dilettantistiche laddove i corrispettivi erogati siano destinati alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante e sia riscontrata, a fronte dell’erogazione, una specifica attività del beneficiario della medesima, consentendo, di conseguenza, di ritenere integralmente deducibili tali spese dal reddito del soggetto sponsor.”
In conclusione, dunque, il peculiare regime approntato in forza della sua natura agevolativa, dispone:
“una presunzione assoluta di inerenza e congruità delle sponsorizzazioni rese a favore di imprese sportive dilettantistiche laddove risultino soddisfatti i requisiti sopra indicati, ossia che i corrispettivi erogati siano destinati alla promozione dell’immagine dei prodotti del soggetto erogante e sia riscontrata, a fronte dell’erogazione, una specifica attività del beneficiario della medesima (Cass., 19 gennaio 2018, n. 1420; Cass., 6 maggio 2019, n. 11797; Cass., 15 gennaio 2020, n. 8540), e consente, di conseguenza, di ritenere integralmente deducibili tali spese dal soggetto sponsor (cfr. Cass., 27 luglio 2021, n. 21452).”
Ciò posto, nella fattispecie in esame, osservano gli Ermellini, l’Agenzia delle entrate:
“non ha mosso contestazioni afferenti alla effettiva corresponsione delle somme da parte della società contribuente ed alla specifica attività del beneficiario della stessa; piuttosto, l’Ufficio finanziario ha rimarcato, in punto di fatto, che la spesa pubblicitaria in esame difettava di inerenza ed era antieconomica. Tale prospettazione, condivisa dal giudice di merito, si pone in contrasto con la corretta nozione di inerenza, che, come già affermato da questa Corte, non poggia sulla necessaria riconducibilità dell’onere di sponsorizzazione alla percezione di ricavi da parte dell’impresa che sostiene il costo, e non tiene conto dell’evoluzione delle tecniche pubblicitarie che porta ad escludere che, nell’attuale mercato «globalizzato», ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza delle spese di pubblicità, debba sussistere un legame territoriale tra l’offerta pubblicitaria e l’area geografica in cui l’impresa svolge la propria attività (Cass., 25 febbraio 2015, n. 3770), né una relazione tra il concetto di spesa e quello di impresa, assumendo rilevanza il costo non tanto per la sua esplicita diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù di una correlazione con un’attività potenzialmente idonea alla produzione di utili (Cass., 27 luglio 2021, n. 21452, citata).”
Nella specie, quindi:
“i giudici di merito muovendo dal presupposto che l’Amministrazione finanziaria potesse sindacare le scelte economiche dell’imprenditore, al fine di negare l’inerenza dei costi di sponsorizzazione manifestamente sproporzionati rispetto all’utilità ritraibile dalla pubblicità, non si sono adeguati ai suesposti principi escludendo la deducibilità dei costi di sponsorizzazione in forza della ritenuta antieconomicità dell’operazione. Ne consegue l’accoglimento del ricorso.”
Sponsorizzazioni indipendenti dalla localizzazione: le norme giurisprudenziali
L’ennesima pronuncia della Corte di Cassazione in materia di sponsorizzazione arricchisce la galleria che si è formata nel corso di questi anni.
Come è noto, il trattamento delle spese di sponsorizzazione, nonostante siano trascorsi diversi anni dall’introduzione del comma 8, dell’art. 90, della L. n. 289/2002, e si sono succeduti interventi di prassi da parte dell’Amministrazione finanziaria e pronunciamenti della Corte di Cassazione, continua a far parlare di sé, atteso che gli Uffici individuano nell’antieconomicità del costo, ovvero nella non congruità, e nell’assenza di finalità di pubblicità, i sintomi da cui può presumere l’indeducibilità totale o parziale della spesa sostenuta.
Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 400.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario (limite elevato a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data del 1° gennaio 2017, per effetto dell’articolo 1, comma 50, della L.n.232/2016).
La circolare n. 21/E/2003 (punto 8) ha rilevato che detta disposizione introduce, in sostanza, ai fini delle imposte sui redditi, “una presunzione assoluta circa la natura di tali spese”, che vengono considerate, nel limite del predetto importo, comunque di pubblicità. Lo stesso documento di prassi ha evidenziato che la fruizione dell’agevolazione in esame è subordinata alla sussistenza delle seguenti condizioni: i corrispettivi erogati devono essere necessariamente destinati alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante; deve essere riscontrata, a fronte dell’erogazione, una specifica attività del beneficiario della medesima.
La successiva risoluzione n. 57/E/2010 ha precisato che la norma individua l’importo annuo complessivo entro il quale i corrispettivi erogati a società ed associazioni sportive dilettantistiche costituiscono per presunzione assoluta spese di pubblicità. Pertanto, nella circostanza in cui vengano erogati a società ed associazioni sportive dilettantistiche corrispettivi di ammontare superiore al predetto limite annuo complessivo, l’eccedenza sarà deducibile secondo le regole ordinarie recate dal T.U. n. 917/1986. In particolare, l’eccedenza sarà deducibile come spesa di pubblicità e propaganda, a condizione che la natura del rapporto contrattuale presenti tutti i requisiti formali e sostanziali riscontrabili in un rapporto di sponsorizzazione o di altra prestazione pubblicitaria.
In genere, l’Ufficio, nella parte motiva dell’avviso di accertamento, evidenzia il costo che ritiene anomalo/abnorme rispetto all’attività d’impresa, illustrando le ragioni in base alle quali la condotta dell’impresa assume connotati di antieconomicità, non compatibili con l’andamento della normale gestione caratteristica, individuando, ove possibile, la ritenuta effettiva entità del costo deducibile, utilizzando i dati di fatto e gli elementi a disposizione che possano ricondurre il componente negativo di reddito ad un carattere di normalità, secondo le peculiari caratteristiche del soggetto sottoposto a controllo. In tal senso si fa ricorso, per esempio, ai criteri di cui all’art. 9 del T.U. n. 917/1986, senza peraltro proporne un’applicazione automatica (non vertendosi nelle ipotesi di cui all’art. 110, comma 7 del T.U. n. 917/1986). In questo modo, l’infedele rappresentazione fiscale di una o più operazioni analiticamente contestate viene messa nero su bianco.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 450/2018, ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all’esercizio dell’attività d’impresa, affermando che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità “perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.
Indirizzo riconfermato con l’ordinanza n. 3170/2018, secondo cui esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità”, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma “costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa”.
Resta fermo che (Cass. n. 10802 del 2002, conf. n. 869 del 2009):
“in tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, terzo comma, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente.”
La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18904/2018, si è soffermata a tutto campo sul principio di inerenza, fornendo una serie di indicazioni utili.
Per la Corte, resta fermo che, in tema di imposte dirette, gli Uffici, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, possono:
“contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa; in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali.”
Mentre:
“in tema di Iva, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo ed l’attività d’impresa.”
Secondo i giudici di Piazza Cavour, il giudizio quantitativo o di congruità si colloca su un diverso piano logico e strutturale, intrecciandosi con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza del costo:
“l’inerenza è un giudizio; la prova dunque deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, ‘originario’.”
L’oggetto del giudizio di congruità è, invece “un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito”.
Tra inerenza e congruità:
“è configurabile un nesso tra i due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell’inerenza è inesistente.”
In ogni caso, nell’ambito delle imposte sui redditi, la valutazione di antieconomicità, ossia dell’evidente incongruità dell’operazione, legittima e fonda il potere dell’Amministrazione finanziaria di accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d, del D.P.R. n. 600/1973, in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, sicché le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito sono rivelatrici di un occultamento di capacità contributiva e la spesa, in realtà, non trova giustificazione nell’esercizio dell’attività d’impresa.
Se è vero, infatti che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, in presenza di un comportamento antieconomico dell’imprenditore, è lecito dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, con la conseguenza che l’Ufficio può disconoscere costi non inerenti e l’onere della prova si sposta sul contribuente, che deve dimostrare la ragionevolezza economica delle operazioni.
Ma la pronuncia da cui abbiamo preso le mosse aggiunge un tassello: i costi di sponsorizzazione sono deducibili anche se sostenuti in parti del territorio distanti da quelli in cui l’impresa esercita la propria attività, che prende atto della globalizzazione dei mercati.
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Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Le sponsorizzazioni sono indipendenti dalla localizzazione