Necessario un esame analitico della documentazione presentata dal contribuente in caso di accertamento fondato sul redditometro: a chiarirlo è la Corte di Cassazione
Nel caso di si accertamento fondato sul cd. redditometro, costituisce principio a tutela della parità delle parti e del regolare contraddittorio processuale quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie a dimostrazione dell’inesistenza del maggior reddito attribuito dall’Ufficio, deve seguire, ove a quell’onere abbia adempiuto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo relativa agli indici di spesa.
Questo il contenuto dell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 22788 del 13 agosto 2024.
Redditometro sotto la lente di ingrandimento della Corte di Cassazione
La controversia ha preso le mosse dall’impugnazione da parte di un contribuente avverso due avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio, per gli anni di imposta 2007 e 2008, aveva accertato, a fini IRPEF, il reddito del contribuente in via sintetica, ex art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973, sulla base di indici di maggiore capacità contributiva, ed aveva irrogato le conseguenti sanzioni.
Il ricorso è stato respinto sia dai giudici della CTP che dalla CTR e avverso la decisione di merito il contribuente ha proposto ricorso in cassazione, per aver reso la CTR una motivazione apparente, essendosi limitata ad affermare, in ordine alla sussistenza di elementi idonei a vincere la presunzione nascente dal c.d. redditometro, che l’operato dell’Amministrazione era corretto e che i documenti bancari prodotti per provare la disponibilità finanziaria per sostenere le spese relative ai beni indice erano inidonei.
I giudici di piazza Cavour hanno accolto le doglianze del contribuente sul punto e hanno cassato con rinvio la decisione impugnata.
In linea generale, il metodo di accertamento fondato sul c.d. redditometro collega alla disponibilità di determinati beni e servizi in capo al contribuente, un certo importo, che, moltiplicato per un coefficiente, consente di individuare il valore del reddito secondo criteri statistici e presuntivi, elaborati anche tenendo conto dei costi di mantenimento del bene o servizio in questione.
Più nel dettaglio, l’art. 38 d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis, prevede, da un lato (quarto comma), la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento (in sostanza, un accertamento basato sui presunti consumi); dall’altro (quinto comma), contempla le “spese per incrementi patrimoniali”, cioè quelle sostenute per l’acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il patrimonio del contribuente.
L’art. 38, comma 5, d.P.R. cit. aggiunge che, nella determinazione del reddito complessivo netto, la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’Amministrazione finanziaria si presume sostenuta con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro precedenti.
Ai sensi del sesto comma dell’art. 38 cit., resta salva la prova contraria, da parte del contribuente, consistente nella dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, o, più in generale, nella prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.
Costante orientamento della Corte di cassazione afferma che la disciplina del redditometro introduce una presunzione legale relativa.
Di conseguenza, l’accertamento non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.
La posizione della Corte di Cassazione sul redditometro
In altre parole, la prova contraria non è limitata a dimostrare che il maggior reddito accertato è costituito da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, ma è consentito dimostrare che il reddito presunto sulla base del coefficiente non esiste o esiste in misura inferiore.
Ciò posto, costituisce principio a tutela della parità delle parti e del regolare contraddittorio processuale quello secondo cui all’inversione dell’onere della prova, che impone al contribuente l’allegazione di prove contrarie a dimostrazione dell’inesistenza del maggior reddito attribuito dall’Ufficio, deve seguire, ove a quell’onere abbia adempiuto, un esame analitico da parte dell’organo giudicante, che non può pertanto limitarsi a giudizi sommari, privi di ogni riferimento alla massa documentale entrata nel processo relativa agli indici di spesa (Cass. 08/10/2020, n. 21700).
Nel caso di specie il giudice di merito non si è attenuto a tali principi in quanto, a fronte della documentazione bancaria prodotta dal contribuente, anziché esaminarla e valutarla al fine di verificare se, e in che misura, giustificasse gli indici di spesa rilevati con l’accertamento sintetico dall’Agenzia, rendendo sul punto congrua motivazione, si è limitata ad affermare, la inidoneità della stessa, assumendo senza alcuna giustificazione, che non poteva “nulla di nuovo [...] controdimostrare”.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Parità delle armi tra Fisco e contribuente in caso di redditometro