Loot box spesso è richiesto un pagamento in moneta reale per procedere nel gioco. Il trattamento fiscale ancora non è chiaro: si tratta di gioco d'azzardo? Se e come i relativi proventi devono essere soggetti ad imposizione? Un'analisi sul tema.
Le cosiddette loot box sono rapidamente diventate una delle principali fonti di reddito nell’industria dei videogiochi.
Ma cosa sono esattamente?
Nell’universo del gaming online le loot box sono oggetti virtuali che contengono premi non monetari, con i quali il giocatore può migliorare la propria esperienza di gioco, o avanzare di livello.
Per fare ciò, il giocatore deve acquistarle, spesso con un pagamento in moneta reale.
Vero è che non tutte le loot box sono uguali: alcune richiedono un pagamento in moneta reale, altre sono gratuite, altre, ancora, infine, offrono la possibilità di guadagnare denaro, permettendo lo scambio di premi in cambio di altri oggetti o di denaro reale.
In ogni caso, si tratta di una fattispecie oggi non regolamentata, che non può più restare in una zona grigia priva di disciplina.
Che cosa sono le loot box? Un’analisi dal punto di vista fiscale
In particolare, sotto l’aspetto fiscale, sarebbe, ad esempio, opportuno chiedersi se possano o meno essere qualificate come gioco d’azzardo, laddove l’articolo 110 del decreto legislativo 18 giugno 1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), stabilisce che l’uso di apparecchi e congegni da gioco d’azzardo – intendendosi per tali quelli che hanno insita la scommessa o vincite puramente aleatorie di un qualsiasi premio in denaro o in natura – sono vietati, salvo che sia stata richiesta ed ottenuta un’autorizzazione amministrativa.
L’aspetto che sarebbe da approfondire è dunque quello per cui il giocatore non ha modo di sapere quale sia il premio contenuto nella loot box prima di averne pagato il prezzo: l’acquisto avviene quindi al buio, da parte di un utente che ha la speranza, ma non la certezza, di trovarvi il vantaggio o il miglioramento desiderato.
E che cosa è questo se non gioco d’azzardo (virtuale), con indubbia prevalenza della componente della fortuna su quella dell’abilità?
Come per i giochi d’azzardo tradizionali (quali, per esempio, le slot machines), anche per le loot box gli individui spendono infatti denaro reale nell’incerta aspettativa di ottenere un premio di valore.
E dunque perché tale fattispecie non dovrebbe essere sottoposta alla medesima disciplina?
Come peraltro già fatto anche in sede internazionale.
Loot box, gioco d’azzardo e tassazione: l’orientamento internazionale
Nel 2018, infatti, la Commissione belga per il gioco d’azzardo e l’Autorità olandese per il gioco d’azzardo hanno classificato alcune forme di loot box come gioco d’azzardo e le hanno assoggettate alle leggi regolanti le lotterie e le slot machine.
Secondo la valutazione della Belgian Gaming Commission la ricompensa che si può ottenere da un’attività di gioco d’azzardo non deve peraltro necessariamente essere di valore monetario, essendo sufficiente che abbia un valore per il giocatore.
Non è quindi neppure necessaria una ricompensa in denaro reale.
In Olanda, invece, in senso in parte differente, pur essendo comunque considerate gioco d’azzardo, il fatto che la ricompensa abbia un valore individuale per il giocatore non è sufficiente affinché una loot box soddisfi la definizione nazionale di gioco d’azzardo.
La ricompensa, pur non essendo necessariamente monetaria, deve infatti avere comunque valore di mercato, come avviene quando può essere scambiata con altri giocatori.
Da ultimo, poi, durante la seduta del 9 marzo 2021, il Bundestag – la Camera bassa del Parlamento tedesco – ha votato a favore di una riforma del Young Protection Act, atta a regolamentare dinamiche “simili al gioco d’azzardo” presenti in videogiochi con target inferiore ai 18 anni, tra cui anche le loot box.
Nel 2019, anche il Comitato britannico per il digitale, la cultura, i media e lo sport aveva d’altra parte raccomandato che le loot box fossero regolamentate come forma di gioco d’azzardo.
E nel 2020, una delle commissioni speciali istituite dalla Camera dei Lord aveva presentato il proprio rapporto sull’impatto sociale ed economico del gioco d’azzardo, con paragrafi specificatamente dedicati proprio alle loot box, concludendo che è dimostrata l’esistenza di una connessione tra la spesa nelle loot box e il gioco d’azzardo compulsivo.
Il punto principale sollevato dal report era che “se un prodotto ha l’aspetto del gioco d’azzardo e sembra essere un gioco d’azzardo, dovrebbe essere regolamentato come gioco d’azzardo” e quindi raccomandava di qualificarlo come gioco d’azzardo.
Il ragionamento non fa una piega.
La Commissione interna al Parlamento europeo per il mercato interno e la protezione dei consumatori (IMCO), nel 2020, ha poi pubblicato uno specifico studio sulle loot boxes, che potrebbe legittimare la loro qualificazione come gioco d’azzardo.
Lo studio fornisce, in particolare, delle linee guida agli Stati che intendano regolamentare la questione, raccomandando la qualificazione delle loot boxes come gioco d’azzardo in quei casi in cui sia possibile riscontrarvi le tre caratteristiche principali caratterizzanti il gioco d’azzardo e cioè:
- un corrispettivo per l’acquisto del “bottino” virtuale,
- l’elemento della casualità nel risultato dell’acquisto e
- la possibilità di vincere un premio che abbia un valore monetario.
Quello che è certo è che nel caso delle loot box la strategia di monetizzazione riguarda proprio l’elemento dell’incertezza.
Peraltro, le transazioni di cui si tratta sono micro-transazioni, spesso dell’ordine di un euro o anche meno, ma proprio questo facilita la perdita di percezione di quanto si stia effettivamente spendendo.
In sostanza, la dinamica delle loot boxes è associabile a quella delle slot machine:
- entrambi i sistemi puntano su transazioni molto piccole e frequenti;
- la vincita non è certa;
- in entrambi i casi, le giocate e le vincite vengono accompagnate da luci, colori, suoni e fuochi d’artificio.
Sicuramente, quindi, le analogie esistono.
Loot box, è gioco d’azzardo? Quale soluzione per la tassazione?
Tanto è vero che il fatto che tali fattispecie possano essere considerate gioco d’azzardo è stato in realtà già anche certificato in sede nazionale, laddove sul tema si è recentemente espressa l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha adottato nuovi standard di trasparenza per i videogiochi in cui sono presenti acquisti in-game, con particolare attenzione a quelli con sistemi di loot box, imponendo l’obbligo di rendere chiaramente visibile il logo PEGI (Pan European Game Information, che indica il rating del gioco) e di esporre un avviso che informi l’utente della possibilità di ulteriori esborsi di denaro durante il gioco.
AGCM ha così chiuso, senza infrazione, i procedimenti avviati nei confronti delle case da gioco, accettando gli impegni adottati per rendere più chiari e trasparenti i meccanismi di acquisto delle loot boxes oggetto di istruttoria.
Sul fronte fiscale, dunque, la soluzione più immediata sembra essere proprio quella di sottoporre tali fattispecie all’imposta sugli intrattenimenti, specificando che anche le loot box rientrano nelle fattispecie sottoposte a tale imposta, magari rifacendosi ad un meccanismo analogo alla web tax.
Ripercorrendo il meccanismo della digital tax nazionale, si potrebbe infatti, ad esempio, specificare che il criterio di collegamento con il territorio dello Stato sussiste quando il servizio digitale è fruito da utenti mediante l’utilizzo di un dispositivo localizzato nel territorio nello Stato, il quale si considera tale sulla base dell’indirizzo di protocollo internet (IP) del dispositivo stesso, o, in mancanza, con ricorso ad altro metodo di geolocalizzazione.
Insomma, come sempre quando si parla di evoluzioni tecnologiche (e sociali), lo Stato deve cercare di seguire la velocità delle stesse evoluzioni, pena, altrimenti, il rischio di “falle” giuridiche poi sempre più difficili da colmare.
Si ricorda, del resto, che il fenomeno sopra descritto rientra comunque nel più ampio tema dei cosiddetti giochi freemium, laddove l’idea di profitto è appunto, quella delle micro-transazioni (ovvero, dopo aver consentito di scaricare on line il gioco gratis, rilasciare contenuti a pagamento in modo continuo e a prezzo basso) e nel più ancora ampio tema dei giochi on line.
Nel caso dei giochi freemium, in sostanza, è possibile scaricarli e avviarli gratuitamente, ma, durante la partita, viene poi offerta la possibilità di ottenere potenziamenti e bonus attraverso denaro reale, con la formula degli “acquisti in-app”.
Lo sviluppatore (e l’azienda che fa da tramite: Google, Apple etc), pertanto, guadagnano non tanto nell’acquisto diretto dell’app, ma durante il suo svolgimento.
E allora la domanda è: come vengono intercettati in Italia i (notevoli) proventi (da imposte dirette) derivanti dai videogiochi (in particolare on line), compresi quelli relativi alla creazione dei software e delle app?
In questo settore, peraltro, gli aumentati di fatturato (anche a seguito dei lockdown) sono stati a doppia percentuale da un anno all’altro, principalmente dovuti al boom dei giochi sulle piattaforme mobile.
E anche le grandi case produttrici di giochi per console e per PC intendono adottare il modello.
Fra poco quindi avremo questo tipo di giochi anche su console o su PC: giochi venduti a 2-4 euro, con poi la richiesta di pagamento di una somma di denaro aggiuntiva per “non alzare troppo il livello di difficoltà”, o per proseguire.
Il freemium è quindi un fenomeno che porta molti più soldi degli abbonamenti, oltre che a forte rischio “dipendenza”.
Ci sono infatti esempi di titoli che, proposti con abbonamenti mensili da una decina d’euro, avevano una risposta tiepida e fatturati ridotti.
Una volta che il gioco è stato convertito a Freemium, gli stessi giocatori che non accettavano di pagare 10 euro al mese per un abbonamento, sono stati capaci di spenderne 400 in un giorno.
Insomma, un fenomeno da non sottovalutare.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Loot box, gioco d’azzardo e tassazione