Il provvedimento di diniego di autotutela può essere impugnato soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa impositiva. Lo ha precisato la Corte di Cassazione

Il provvedimento dell’Amministrazione finanziaria di diniego all’esercizio del potere di autotutela può essere impugnato, ma soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa impositiva.
Infatti, anche il provvedimento di diniego di autotutela può essere affetto da vizi di legittimità propri degli atti amministrativi, per cui non vi sono ragioni per precludere al contribuente la possibilità di esperire i mezzi di tutela per far valere tali vizi, ma questi non possono sovrapporsi ai vizi di validità o di merito afferenti all’atto impositivo, poiché altrimenti si consentirebbe l’aggiramento del termine di decadenza per l’impugnazione degli atti impositivi.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 9225/2025.
Diniego all’autotutela impugnabile solo per vizi afferenti al rifiuto
La vicenda processuale tratta il ricorso proposto da una società avverso l’istanza di autotutela, con la quale la contribuente aveva richiesto lo sgravio delle cartelle di pagamento, non impugnate e divenute definitive.
La controversia è giunta in Cassazione dopo il ricorso della società, che ha lamentato come i giudici di appello non abbiano rilevato che le cartelle di pagamento di cui è stato chiesto lo sgravio rappresentavano una duplicazione dei crediti di imposta recuperati alla stessa società dall’ufficio con precedenti atti di recupero.
La Corte di Cassazione ha precisato che l’istituto dell’autotutela tributaria è disciplinato I dall’abrogato DM n. 37/1997, emanato in attuazione delle disposizioni contenute nell’art. 2-quater, comma 1, del DL n. 564 del 1994, non assumendo rilievo, ai fini della soluzione della presente controversia, le novità introdotte dall’art. 1, comma 1, lettera m), del Dlgs n. 219 del 2023, che ha inserito nella legge n. 212 del 2000 gli artt. 10-quater e 10-quinquies, dedicati, rispettivamente, all’esercizio dell’autotutela obbligatoria e dell’autotutela facoltativa da parte dell’Amministrazione Finanziaria.
Ciò premesso, l’articolo 2 del predetto decreto stabilisce che
“L’Amministrazione finanziaria può procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione, quali tra l’altro:
- errore di persona;
- evidente errore logico o di calcolo;
- errore sul presupposto dell’imposta;
- mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti;
- mancanza di documentazione successiva mente sanata, non oltre i termini di decadenza;
- sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati;
- errore materia le del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione.”
Secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 7388 del 2007, l’autotutela non è un’alternativa ai rimedi giurisdizionali per il contribuente, anche se può influire sul rapporto tributario e sulla posizione giuridica del contribuente.
In altre parole, l’impugnazione avverso il diniego di autotutela può riguardare soltanto i profili di illegittimità del rifiuto di annullamento opposto dall’Amministrazione finanziaria, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale.
Pertanto, il vaglio del giudice non può riguardare la fondatezza della pretesa tributaria, ormai definitivamente preclusa, determinandosi altrimenti una indebita sostituzione dell’autorità giudiziaria alle scelte discrezionali dell’amministrazione, peraltro con riferimento ad un atto ormai divenuto inoppugnabile.
In conclusione, la Corte ritiene che contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela possa essere sì proposta impugnazione, ma soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa impositiva.
L’orientamento giurisprudenziale
In tale contesto si inserisce anche la sentenza n. 24032/2019, con cui la Corte di Cassazione ha affermato che il sindacato del giudice tributario sul provvedimento di diniego dell’annullamento dell’atto tributario divenuto definitivo è consentito, purché si accerti la ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto, originarie o sopravvenute.
Invece deve escludersi che possa essere accolta l’impugnazione dell’atto di diniego proposta dal contribuente il quale contesti vizi dell’atto impositivo che avrebbe potuto far valere, per tutelare un interesse proprio, in sede di impugnazione prima che l’atto divenisse definitivo.
Sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale intervenuto in materia, condiviso nella sentenza de qua, la Corte ribadisce che, sebbene sia ammissibile l’impugnazione dei provvedimenti di diniego emessi in sede di autotutela, ancorché l’originario provvedimento sia divenuto definitivo, il contribuente che richiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione è definitivamente preclusa, ma deve piuttosto prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto.
Infatti, come già riconosciuto dalla Corte (Cass. n. 22253/2015), non può escludersi che, trattandosi di attività procedimentalizzata, anche il provvedimento di diniego di autotutela possa essere affetto da vizi di legittimità propri degli atti amministrativi, per cui non vi sono ragioni per precludere al contribuente la possibilità di esperire i mezzi di tutela per far valere tali vizi, ma questi non possono sovrapporsi ai vizi di validità o di merito afferenti all’atto impositivo, poiché altrimenti si consentirebbe l’aggiramento del termine di decadenza, previsto a garanzia del principio di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, per l’impugnazione degli atti impositivi, che rimarrebbero esposti al riesame a tempo indeterminato tutte le volte in cui il contribuente dovesse presentare una istanza di revisione in autotutela.
Alla luce di tali principi la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso della società contribuente.
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