La riforma del Terzo settore ha completamente ridefinito il concetto di commercialità delle attività esercitate dagli enti, ed ha posto nuovi limiti agli utilizzatori, che devono essere considerati per individuare il confine tra attività commerciale e non.
Nella situazione attuale, la disciplina delle associazioni è scissa su due fronti principali, che vedono contrapporsi gli enti del terzo settore, che intendono iscriversi al RUNTS non appena esso sarà operativo e che hanno già adeguato i loro statuti o comunque che lo faranno entro la scadenza slittata al prossimo 31 maggio 2021, e gli enti non commerciali di tipo associativo che non passeranno al terzo settore.
I primi, quindi gli enti del terzo settore, sono disciplinati dalle norme contenute nel d.lgs 117/2017, mentre gli enti non commerciali di tipo associativo fanno riferimento al TUIR.
Tale distinzione è necessaria ai fini dell’analisi che stiamo per compiere, in quanto per essi il legislatore ha previsto due differenti tipologie di determinazione di decommercializzazione delle attività esercitate.
Oltre a tale macro suddivisione è importante far presente che anche all’interno del terzo settore vi è un’ulteriore profonda differenziazione che vede le APS molto più privilegiate rispetto alle altre categorie di enti.
Decommercializzazione dell’attività generale degli ETS
Nella presente sede vorrei soffermarmi ad analizzare i limiti e le modalità pratiche che devono essere attuate per gli enti del terzo settore, tranne le APS, per le quali vi sono delle specifiche oggetto di apposito approfondimento, al fine di determinare la commercialità delle attività esercitate andando così ad individuare quali di esse sono oggetto di tassazione e monitorare l’ente in modo da non rischiare la perdita della qualifica di ente non commerciale.
Partiamo dalla definizione di decommercializzazione delle attività per gli ETS, contenuta nell’art. 79 del d.lgs 117/2017, “le attività di interesse generale di cui all’articolo 5 ivi incluse quelle accreditate o contrattualizzate o convenzionate con le amministrazioni pubbliche, si considerano di natura non commerciale quando sono svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi”.
L’ente del terzo settore che esercita quindi le attività previste dall’art. 5 del d.lgs 117/2017, definibili come attività di interesse generale, di natura istituzionale per esso, potrà non considerare di natura commerciale le entrate da esse derivanti solo se:
- sono svolte a titolo gratuito;
- se sono svolte dietro corrispettivi specifici che non superano i costi effettivi.
La prima domanda che è quindi giusto porsi riguarda la determinazione e la definizione di costo effettivo, oltre alla soglia ammissibile oltre la quale si ritiene aver superato l’ammontare di tali costi.
Per quanto riguarda l’eventuale soglia numerica entro la quale l’ente deve mantenersi, il legislatore si pronuncia al comma 2-bis dell’art. 79 del CTS specificando che “le attività di cui al comma 2 si considerano non commerciali qualora i ricavi non superino di oltre il 5 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi”.
Si dovranno quindi osservare i ricavi derivanti dall’esercizio delle attività di interesse generale e valutare il loro eventuale superamento per oltre due periodi di imposta consecutivi del 5% dei costi.
L’altro aspetto fondamentale è la percezione di cosa compone il “costo effettivo”.
Il costo effettivo per le attività generali degli ETS
Riprendiamo per un attimo il passaggio contenuto nell’art. 79 comma 2 del d.lgs 117/2017 “le attività di interesse generale si considerano di natura non commerciale, quando sono svolte dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi”.
La determinazione quindi dei “costi effettivi” diventa un aspetto di fondamentale importanza per l’ente del terzo settore che vuole mantenere la qualifica di ente non commerciale e non assoggettare le entrate di natura istituzionale a tassazione.
È stato il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili a pronunciarsi in merito a tale defiinzione, per esso difatti parlando di costo effettivo si deve prendere a riferimento il concetto di “costo pieno” o full costing.
Il concetto di costo pieno fu esplicato in senso più specificato dagli economisti inglesi R. L. Hall e C. J. Hitch come “il criterio seguito dalle imprese nella determinazione del prezzo di vendita”, a seguito di una ricerca empirica che aveva coinvolto l’intero gruppo di economisti di Oxford.
Tale configurazione permette di non trascurare alcun costo, ma necessita di un processo di attribuzione dei costi molto dettagliato e complesso.
Il costo pieno racchiude sia il costo diretto che indiretto, integra infatti il costo diretto con la quota di costi che derivano dall’allocazione dei centri ausiliari detti anche funzionali sui centri principali.
Per determinare il costo pieno, ovvero i costi effettivi sui quali basarsi per fissare la soglia dei corrispettivi specifici da poter richiedere contro le prestazioni effettuate dall’ente si dovranno unire:
- i costi diretti e indiretti di produzione;
- l’ imputazione della quota relativa ai costi generali dell’ente.
Esiste però una previsione di decommercializzazione dei corrispettivi specifici per le APS a prescindere dal rispetto delle soglie sopra indicate, mentre per tutti gli altri ETS è necessario seguire quanto sopra esposto.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Definizione di costo effettivo per la decommercializzazione degli ETS