Anche per il fisco “la pizza si fa con la farina”... in questo senso i controlli fiscali sull'attività di una pizzeria, anche con riferimento alla ricostruzione dei ricavi presunti ma non dichiarati, possono basarsi sul consumo di farina e mozzarella accertato a mezzo delle fatture
Per il fisco la pizza si fa con la farina. Sembra una battuta ma non lo è, o forse lo è solo in parte.
Effettivamente la materia prima principale utilizzata nell’ambito dell’attività economica svolta dalle pizzeria è proprio la farina, forse apparirà a chi legge come una banalità ma non lo è se consideriamo il tema dei controlli fiscali e sugli elementi alla base di essi.
In questo senso, è legittima la ricostruzione dei ricavi operata nei confronti di una pizzeria, prendendo le mosse dal consumo di farina accertato a mezzo delle fatture, sottratta una percentuale pari al 10 per cento di c.d. sfrido, e ipotizzando un consumo medio di farina per ogni pizza, stimato in 150 grammi e, tenendo comunque conto delle destinazione per un ulteriore 10 per cento delle pizze prodotte ad autoconsumo.
Di questo principio si è discusso in queste settimane, soprattutto in conseguenza della recente ordinanza numero 31583/2023 della Corte di Cassazione.
Questo approfondimento appare molto utile sia per i ristoratori che vogliono avere una panoramica della logica con la quale avvengono i controlli fiscali; ma appare altresì interessante per i professionisti che si occupano della gestione contabile e fiscale delle pizzerie e dei ristoranti, soprattutto perché offre una ricca rassegna delle più importanti pronunce giurisprudenziali degli ultimi anni su questa materia.
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Il controllo fiscale su una pizzeria: elementi al centro delle attività del fisco
Il fatto oggetto di approfondimento trae origine da un avviso di accertamento, ai fini IRPEF ed IVA, con il quale, per l’anno di imposta 2002, l’Ufficio aveva provveduto, a carico di una pizzeria, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d) d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633/1972, alla determinazione analitico-induttiva di maggiori ricavi non contabilizzati.
La pizzeria, dopo essere uscita sconfitta in primo e secondo grado (commissione tributaria provinciale prima e commissione tributaria regionale dopo) ha quindi deciso di ricorrere in Cassazione per avere il Giudice d’appello erroneamente ritenuto sussistenti i presupposti di legge legittimanti l’esercizio da parte dell’Agenzia delle Entrate, del potere accertativo analitico-induttivo, sulla base di un solo elemento potenzialmente idoneo a rivelare una contabilità inattendibile, ovvero il consumo di farina e per aver ritenuto di poter desumere da questo ultimo, con un ragionamento inferenziale incoerente, la quantità di pizze prodotte nell’anno.
“Assume, pertanto, che l’accertamento analitico induttivo era stato compiuto pur in assenza di elementi fattuali idonei a disattendere la regolarità della contabilità aziendale. Assume, ancora, che il passaggio dal fatto noto (il consumo di farina) a quello ignoto, (il numero di pizze prodotte nell’anno) si fondava su un’inferenza apodittica ed indimostrata, non essendovi l’evidenza della quantità di farina necessaria per produrre un pizza, indicata dall’Ufficio in 150 grammi”
Inoltre, censura la sentenza impugnata per avere erroneamente ritenuto legittima la concreta ricostruzione analitico-induttiva dei ricavi operata, basata su presunzioni semplici, prive dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, nonché su doppie presunzioni non ammesse dalla legge.
“Precisa che l’Ufficio con una prima presunzione aveva tratto dal consumo di farina il numero delle pizze prodotte e con una seconda presunzione aveva tratto da quest’ultimo dato il corrispettivo percepito per coperti e bevande. Si duole, infine, della mancata considerazione del volume d’affari generato dalle pizze d’asporto”
L’evoluzione recente della giurisprudenza tributaria, di merito e di legittimità
Entrambi i motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente, in quanto connessi sono infondati.
“Questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che l’accertamento analitico-induttivo non è escluso in presenza di scritture contabili formalmente corrette quando la contabilità si presenti complessivamente inattendibile alla stregua di criteri di ragionevolezza (si veda in proposito, in particolare, la datata ma sempre attuale ordinanza numero 22184/2020 resa in un caso in cui l’unica presunzione posta a fondamento dell’avviso di accertamento ex art 39 cit. era costituita dal consumo di energia elettrica, presunzione dalla quale l’Ufficio era risalito alla quantificazione dei redditi di un’impresa di autolavaggio)”
Nella stessa direzione si è precisato che l’accertamento con metodo analitico-induttivo è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) d.P.R. n. 600 del 1973, art. 39
“pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile (Cass. 24/09/2014, n. 20060)”
In tema di presunzioni semplici
“la Corte ha ritenuto che gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purché grave e preciso, dovendo il requisito della «concordanza» ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi (Cass. 29/01/2019, n. 2482, Cass. 26/09/2018, n. 23153)”
Nello stesso senso:
“in ambito fiscale si è osservato che gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benché l’art. 2729 cod. civ., l’art. 38, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, e l’art. 38, comma 4, d.P.R. n. 633 del 1972, si esprimano al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave (Cass. 15/01/2014, n. 656)”
Quanto alla c.d. doppia presunzione:
“la sussistenza nell’ordinamento del suo divieto è stata esclusa da questa Corte, secondo cui il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o «divieto di doppie presunzioni» o «divieto di presunzioni di secondo grado o a catena»), se pure acriticamente menzionato in varie sentenze, è inesistente, perché non è riconducibile né agli evocati artt. 2729 e 2697 cod. civ. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento.
Il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea — in quanto, a sua volta adeguata — a fondare l’accertamento de! fatto ignoto (Cass. 01/08/2019, n. 20748).
La prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto noto attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto ignorato, il quale cessa pertanto di essere tale, divenendo noto; ciò risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass. 07/12/2020, n. 27982).
Pertanto, si è chiarito, ben può il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea, per essere a sua volta adeguata, a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass., 24/08/2023, n. 25229).”
Nel caso in esame, per i giudici di Piazza Cavour, la sentenza è conforme a questi principi:
“La C.t.r., infatti, confermando la sentenza di primo grado, ha ribadito la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo, nonostante la regolarità delle scritture, risultando, sulla base di elementi indiziari gravi e precisi, la loro inattendibilità; ha, poi, ritenuto legittima la ricostruzione dei ricavi derivanti dall’esercizio dell’attività di pizzeria, prendendo le mosse dal consumo di farina accertato a mezzo delle fatture, sottratta una percentuale pari al 10 per cento di c.d. sfrido, e ipotizzando un consumo medio d farina per ogni pizza, stimato in 150 grammi e, tenendo comunque conto delle destinazione per un ulteriore 10 per cento delle pizze prodotte ad autoconsumo”
Il ricorrente, invece, nell’affermare che non è fatto notorio o probabile né un’evidenza logica sostenere che una pizza venga prodotta impiegando l’esatta quantità di farina indicata dall’Ufficio, e che non si è tenuto conto della vendita di pizze d’asporto, muove una critica che si concreta nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali; prospetta un’inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice di merito, senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma.
Controlli fiscali sulle pizzerie: alcune considerazioni operative
Come è noto, ormai da diversi anni, l’Amministrazione finanziaria procede al controllo dell’attività dei ristoratori, attraverso gli stessi ingredienti utilizzati dagli imprenditori (pasta, tovaglioli, bottiglie, caffe, acqua, etc), valorizzando, altresì, l’utilizzo dei tavoli, e gli eventuali acquisti in nero ( tipico l’acquisto di pesce), ovvero la manodopera in nero.
Qualche anno fa, per esempio, salì alla ribalta il cd tovagliometro.
In pratica, i verificatori si sostituiscono al ristoratore, calcolando i ricavi che ne derivano dall’utilizzo della materia prima ovvero dei beni strumentali.
Il controllo fiscale dei verificatori, diretto alla ricostruzione indiretta dei ricavi, di fatto, può essere eseguito nei ristoranti in due modi diversi:
- verifica dei rapporti esistenti tra l’impiego delle materie prime acquistate e utilizzate (considerando, naturalmente, anche gli eventuali acquisti non fatturati emersi nel corso della verifica) e i pasti somministrati risultanti dalle ricevute fiscali emesse;
- verifica dei coperti disponibili.
È naturale che il primo metodo di controllo potrà essere suffragato dal secondo e viceversa ovvero costituire due autonomi percorsi di controllo.
Ed è ovvio che il metodo di controllo utilizzato è diverso a secondo del tipo di ristorante/pizzeria: in genere, vengono scomposti gli acquisti fatturati, per tipologia merceologica, rilevando le date di approvvigionamento, determinando i pasti somministrati risultanti dalle ricevute fiscali e/o fatture emesse, le percentuali di sfrido relative ad alcuni elementi, gli eventuali deterioramenti dei prodotti e porzioni rimasti invenduti, i possibili diversi impieghi delle materie prime (per esempio, il caffè può essere utilizzato oltre che per la preparazione della bevanda anche per i dolci), e le somministrazione riferibili ai dipendenti e all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci.
In tutte queste ipotesi, l’accertamento redatto dall’Ufficio trova naturale collocazione nell’ambito dell’articolo 39, comma 1, lettera d, del D.P.R. numero 600/73, cd. accertamento analitico, con posta induttiva sui ricavi.
Caratteristica principale di tale norma è quella di consentire di desumere:
“l’esistenza di attività non dichiarate…….anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”
Al fine di ritenere correttamente desunta una presunzione semplice, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo, invece, sufficiente che le circostanze sulle quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del secondo come una conseguenza del primo (già accertato in giudizio) alla stregua di canoni di ragionevole probabilità, dovendosi cioè ravvisare una connessione tra la verificazione del fatto già accertato e quella del fatto ancora ignoto alla luce di regole di esperienza che convincano il giudice circa la verosimiglianza della verificazione stessa dell’uno quale effetto dell’altro.
Rileviamo che, con la sentenza n. 8822/2019, la Corte di Cassazione aveva osservato che l’accertamento con metodo analitico induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, è consentito ai sensi del D.P.R. n. 600/1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, in quanto la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute, che tuttavia appaiano contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata, sicché essa possa essere considerata, nel suo complesso inattendibile.
Sulla prova presuntiva per il controllo fiscale delle pizzerie, per la giurisprudenza di legittimità è legittima la ricostruzione dei ricavi sulla base del consumo di materie prime, quando queste costituiscano gli ingredienti fondamentali, se non addirittura indispensabili ai fini della preparazione degli alimenti offerti, o del servizio che si accompagna alla consumazione effettuata (Si veda anche l’Ordinanza n. 24874/2023).
Nel caso di specie, nella dettagliata ricostruzione dei ricavi della pizzeria/tavola calda, l’ufficio aveva valorizzato il consumo di farina e di mozzarella per le pizze, ricavando, con valore ponderato, il numero di pizze, che moltiplicato ad un prezzo medio, assolutamente conforme al mercato, aveva evidenziato ricavi ben maggiori del dichiarato.
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Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Il controllo fiscale nelle pizzerie