Salario minimo: la discussione sui pro e i contro di una eventuale introduzione è accesa. Da Confindustria ai sindacati: la schiera dei contrari raccoglie ampi consensi. Su quali dati e argomentazioni si basano le opposizioni?
Come in un crescendo, nelle ultime settimane si parla sempre di più di un’eventuale introduzione del salario minimo e la discussione sui “pro” e i “contro” si fa sempre più accesa. Da Confindustria ad AssindataColf, passando per i Consulenti del Lavoro e i sindacati: la schiera dei contrari è ricca e variegata.
Nelle audizioni che si sono tenute alla Commissione Lavoro della Camera nelle ultime settimane, enti e associazioni in primo piano nel mercato del lavoro hanno portato dati e argomentazioni a sostegno del loro veto.
Il salario minimo di cui si discute, fuori e dentro le aule del Parlamento, dovrebbe garantire ai lavoratori una retribuzione oraria di 9 euro lordi. Attualmente il tetto che il datore di lavoro deve rispettare per retribuire il lavoratore è stabilito dalla contrattazione nazionale e quindi cambia da settore a settore: stando ai dati diffusi dall’Istat, in Italia il 20% dei rapporti di lavoro prevede una retribuzione oraria inferiore alla cifra che si vorrebbe stabilire per legge.
Apprendisti, operai, operatori nei servizi di alloggio e ristorazione sono tra le categorie che trarrebbero i maggiori benefici dall’introduzione di una soglia minima per la retribuzione.
Salario minimo: dati e argomentazioni di chi è contrario
Se si considera il settore del lavoro domestico, la retribuzione di una colf passerebbe da 809,71 euro a 2.106,00 euro con una differenza di 1.296,29 euro. Secondo le stime elaborate dall’associazione Assindata Colf e riferite alla Camera durante l’audizione del 1° luglio, la retribuzione di una baby sitter costerebbe alle famiglie il 160% in più, mentre quella di una badante avrebbe un incremento del 114%.
Sulla base dei costi che deriverebbero dall’introduzione di una paga oraria minima, l’associazione di categoria si pone in una posizione assolutamente contraria.
Uno studio realizzato dall’Ordine e dal Consiglio Nazionale Consulenti del Lavoro, stima un costo diretto che deriverebbe dall’applicazione di un salario minimo di 9 euro lordi pari a 5,5 miliardi di euro, considerando gli oltre 4 milioni di lavoratori, inclusi operatori agricoli, colf e badanti, potenzialmente interessati. Una vastità di platea confermata anche dall’INPS.
L’aumento della spesa per le aziende è la preoccupazione numero uno di chi è contrario: il rischio da evitare è che si crei un effetto boomerang per entrambe le parti in causa, datori di lavoro e lavoratori.
Una posizione sostenuta con forza dal Consiglio Nazionale Consulenti del Lavoro:
“Bisogna evitare che, senza una politica di contenimento della spese e del cuneo fiscale contributivo, (il salario minimo) metta fuori mercato le nostre imprese o alimenti fenomeni di dumping sociale oppure porti a delocalizzazioni selvagge”.
Con queste parole, la presidente Marina Calderone durante il Festival del Lavoro 2019 ha espresso il timore delle conseguenze di una possibile introduzione del salario minimo.
La scelta di introdurlo ha un impatto diretto “sul mercato del lavoro, sulle scelte delle imprese e sulla competitività della nostra economia”, ha sottolineato Pierangelo Albini, Direttore Area Lavoro, Welfare e Capitale Umano di Confindustria, nell’audizione che si è tenuta alla Commissione Lavoro della Camera il 24 giugno.
Se tra il salario minimo e quello mediano c’è un disallineamento, l’impatto non può che essere negativo, e secondo l’associazione delle imprese manifatturiere e di servizi, è il caso dell’Italia:
“Un salario minimo pari a 9 euro corrisponderebbe all’80% del salario mediano italiano, mentre la media nei Paesi OCSE è pari al 51%. La nostra posizione, dunque, è contraria alla fissazione per legge di un valore della retribuzione oraria.”
Salario minimo, le priorità alternative di chi è contrario all’introduzione
Secondo Confindustria, la misura proposta non solo rischia di avere effetti negativi, ma non ha alcuna efficacia sul vero problema che caratterizza il mondo del lavoro: il controllo dell’effettivo rispetto della misura legale di retribuzione del lavoratore.
E oltre a porre il suo veto, propone una soluzione alternativa:
“L’opzione che, a nostro avviso, il Legislatore dovrebbe seguire è quella che prende a riferimento, per la determinazione del salario minimo e per il suo adeguamento, il sistema della contrattazione collettiva espressione delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, salvo individuare un vero e proprio livello minimo di garanzia per i settori e le attività che fossero effettivamente prive di contrattazione di riferimento, in primis per le collaborazioni coordinate e continuative”.
Allo stesso modo, i sindacati CGIL, CISL e UIL spostano il cuore del problema e propongono altre priorità, difendendo l’efficacia e l’importanza che ancora conserva la contrattazione collettiva.
“Dobbiamo denunciare come si stia affermando una tendenza opposta e problematica a quella europea, ovvero la proliferazione contrattuale, la diffusione di contratti poco e per nulla rappresentativi e in dumping (anche dal punto di vista retributivo) rispetto ai contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative”.
Agire contro l’evasione contrattuale, contrastare le forme di sottoccupazione, evitare i part-time involontari sono le priorità su cui agire per i sindacati. E sono aspetti su cui l’introduzione del salario minimo legale non potrà avere alcun effetto.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Salario minimo: dati e argomentazioni di chi è contrario