IVA su somministrazione di alimenti e bevande: alcune considerazioni interpretative sulla normativa in vigore e sulle posizioni espresse recentemente dall'Agenzia delle Entrate.
Un perché circostanziato all’applicazione della normativa IVA nella fattispecie prevista per la cessione dei beni.
Il distanziamento personale in atto ormai da due mesi a questa parte, nell’ambito della strategia di tutela della salute avverso la pandemia da Covid-19, ha fatto crescere notevolmente il mercato del Food Delivery.
Ad esso si sono convertite numerose attività tradizionali di ristorazione ed ancor più ora, con il libero asporto diretto da parte del consumatore, stiamo assistendo ad una ulteriore ascesa nel gradimento di questa scelta di consumo da parte degli italiani.
Nel mezzo però resta lo zampino del fisco che fermo ad una normativa ed a una prassi consolidata negli anni e culminata con la pubblicazione nello scorso febbraio 2019 del Principio di diritto 9 dal titolo “Aliquota Iva applicabile alla cessione e alla somministrazione di alimenti e bevande”
In questo documento di 12 righe viene affermato che per la corretta applicazione dell’articolo 16 del d.p.r. 633/72:
“…occorre, ai fini del corretto inquadramento fiscale, distinguere la somministrazione di alimenti e bevande dalla cessione dei medesimi beni”
Prosegue poi citando la risoluzione numero 103 del 17 novembre 2016 ed indicando come elemento distintivo della somministrazione
“… sia caratterizzata dalla commistione di prestazioni di dare e prestazioni di fare”
E termina confermando come l’aliquota dl 10% sia da applicare alla
“somministrazione di alimenti e bevande” mentre la cessione “dovrà scontare l’aliquota applicabile in dipendenza della singola tipologia di bene alimentare venduto”
Fin qui nulla da dire se non che l’applicazione pratica di questo principio non può essere così automatica come potrebbe inizialmente sembrare anche dalla lettura di articoli che si possono leggere sull’argomento, e che considerano tout court cessione di beni la fornitura di pasti da asporto erogata dai pubblici esercizi indifferentemente dal fatto che questa avvenga su ordinazione acquisita a distanza, come ad esempio via social, on line dalla pagina web del locale, dalle app ormai conosciute da tutti come in ultimo dal cliente che si reca in loco per l’ordinazione.
Se questo può andar bene per pasticcerie, pizzerie e simili non lo ritengo di facile lettura per l’attività svolta da ristoranti ed attività di somministrazione in genere.
Innanzitutto il riferimento da cui trae origine il principio enunciato dalla Agenzia delle Entrate è una consulenza giuridica avente oggetto il particolare caso della somministrazione di caffè in cialde mediante distributori automatici; la lettura dello stesso documento non aiuta molto nel definire l’esatto confine da applicare al caso pratico.
A dare una più precisa definizione di tale perimetro ci viene in aiuto la normativa comunitaria, ed in particolare il Regolamento di esecuzione (UE) n. 282/2011 recante disposizioni di applicazione della direttiva 2006/112/CE che al suo articolo 6 recita:
“1. I servizi di ristorazione e di catering consistono nella fornitura di cibi o bevande preparati o non preparati o di entrambi, destinati al consumo umano, accompagnata da servizi di supporto sufficienti a permetterne il consumo immediato. La fornitura di cibi o bevande o di entrambi costituisce solo una componente dell’insieme in cui i servizi prevalgono. Nel caso della ristorazione tali servizi sono prestati nei locali del prestatore, mentre nel caso del catering i servizi sono prestati in locali diversi da quelli del prestatore.
2. La fornitura di cibi o bevande preparati o non preparati o di entrambi, compreso o meno il trasporto ma senza altri servizi di supporto, non è considerata un servizio di ristorazione o di catering ai sensi del paragrafo 1”
Come avrete potuto leggere da questo documento è molto più facile comprendere la distinzione tra somministrazione e cessione e conseguentemente poter applicare l’aliquota iva più idonea al caso.
Detto questo voglio qui esprimere un mio parere sul punto.
I soggetti esercenti attività di somministrazione, ora costretti giocoforza alla sola attività nella forma delivery e take away, sono pur sempre le stesse imprese le cui prestazioni per natura ed organizzazione del lavoro contengono una componente di prestazione di servizi nettamente più vasta, vuoi anche per l’assistenza anche telematica rivolta al cliente nella scelta del menu più adatto alle sue esigenze, vuoi per l’assenza di una organizzazione dell’impresa e di una azione concettualmente rivolta anche in questa fattispecie alla mera cessione di beni.
Ed i vari Dpcm, pur avendo temporaneamente vietato l’uso degli spazi destinati alla consumazione dei pasti, non hanno ovviamente modificato la natura intrinseca del servizio erogato dai pubblici esercizi.
Tenuto conto che ad emergenza terminata questa forma di attività sarà acquisita stabilmente quale ulteriore servizio aggiuntivo a quello ordinariamente effettuato nel proprio locale, sarebbe interessante poter leggere magari già nella prossima circolare dell’Agenzia delle Entrate che questa possa essere assimilata ad una forma light di catering piuttosto che ad una mera cessione.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: L’IVA su somministrazione di alimenti e bevande in modalità take away: alcune considerazioni critiche