Il lavoratore disabile ha diritto alla conservazione del posto di lavoro ma trova un limite nell'organizzazione aziendale. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4896 del 23 febbraio 2021.
Il diritto del lavoratore invalido a mantenere il proprio posto di lavoro trova un limite nell’organizzazione interna dell’impresa e specialmente nel mantenimento degli equilibri finanziari dell’azienda e nel diritto degli altri lavoratori di conservare le mansioni assegnate.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza numero 4896 del 23 febbraio 2021 che è andata alla ricerca del punto di equilibrio tra il diritto alla non discriminazione del disabile, il diritto alla libera iniziativa economica dell’imprenditore-datore di lavoro e gli interessi dei colleghi.
Un bilanciamento che, secondo gli Ermellini, deve essere eseguito in applicazione dei parametri previsti dalla Corte di Giustizia Europea che definisce gli accorgimenti.
Si tratta di rimodulazioni che consentono l’espletamento dell’attività lavorativa dell’invalido quali “modifiche e adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un carico sproporzionato ed eccessivo”.
Invalidità del lavoratore: i limiti del diritto alla conservazione del posto
La pronuncia della Corte si riferisce alla corretta applicazione del Decreto legislativo del n. 216 del 2003, il provvedimento che attua la Direttiva dell’Unione Europea 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
L’articolo 3, comma 3-bis del citato Decreto, così come modificato dal Decreto Legge n. 76/2013, prevede infatti quanto segue:
“Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (...) nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
È stata la Corte di Giustizia a definire gli accomodamenti ragionevoli come delle modifiche e degli adattamenti che però non arrechino un onere eccessivo e sproporzionato all’organizzazione dell’azienda e agli altri lavoratori (CGUE, 4 luglio 2013).
In conformità agli orientamenti europei, anche la giurisprudenza nazionale si è espressa in questo senso. In particolare, ha ritenuto che l’impossibilità di impiegare il lavoratore divenuto inabile può costituire giustificato motivo di licenziamento se altera in maniera sproporzionata l’assetto organizzativo dell’azienda.
Invalidità del lavoratore e diritto alla conservazione del posto: le indicazioni per il giudice
Il giudice di merito eventualmente investito dalla questione riguardante la pretesa di un lavoratore invalido di mantenere il proprio posto in azienda, secondo quanto riepilogato dalla Suprema Corte, deve seguire alcune linee guida.
Deve infatti indagare sulla sussistenza, all’interno della struttura dell’azienda, di mansioni che possono eventualmente adattarsi all’inabilità del lavoratore.
A quel punto può giudicare legittimo il licenziamento non solo quando risultano inesistenti accorgimenti pratici utili al suo mantenimento, ma anche quando viene accertata l’impossibilità di affidargli mansioni equivalenti o anche inferiori senza stravolgere l’organizzazione dell’azienda.
Non è altro che l’applicazione del principio di ragionevolezza che vede una sua declinazione, tra gli altri, nei limiti imposti dal dall’articolo 2103 del Codice Civile che prevede il divieto di modifica in peius delle posizioni lavorative degli altri lavoratori. Come, peraltro, lo stesso principio della libertà dell’iniziativa imprenditoriale sancito dall’articolo 41 della Costituzione.
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