Diniego di autotutela: nell'Ordinanza numero 29874 del 30 dicembre 2020 la Corte di Cassazione, analizzando uno specifico caso processuale, si è soffermata sui presupposti di impugnabilità.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza numero 29874 del 30 dicembre 2020, ha risolto un contenzioso in tema di impugnabilità di diniego di autotutela.
Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva confermato la decisione di primo grado, riformandola solo quanto alle spese, che aveva compensato, dichiarando inammissibile il ricorso della società contribuente in quanto diretto contro atto non impugnabile (diniego di autotutela).
Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione, censurando la pronuncia per violazione dell’art. 2-quater Dl. n. 564 del 1994, come convertito in L. n. 656 del 1994 e del relativo regolamento di esecuzione di cui all’art. 2 Dm. n. 37 del 1997 per non avere la CTR qualificato il provvedimento di diniego di autotutela quale provvedimento innovativo dell’avviso di accertamento recante la pretesa di maggiori tributi, provvedimento quest’ultimo non impugnato dalla stessa società.
Secondo la Suprema Corte il ricorso era infondato.
- Corte di Cassazione - Ordinanza numero 29874 del 30 dicembre 2020
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Impugnabilità del diniego di autotutela: la posizione della Corte di Cassazione
Evidenziano i giudici di legittimità che il provvedimento di diniego di autotutela non costituiva rinnovazione dell’avviso di accertamento, in quanto esso non aveva mai disposto espressamente la revoca di tale provvedimento e la sostituzione di esso con un autonomo ulteriore avviso di accertamento.
Tale circostanza era stata del resto accertata in fatto, concordando i giudici di appello con la Commissione Tributaria Provinciale ed avendone dato conto ampiamente e linearmente in motivazione, rilevando come, tra le altre, l’impugnazione del provvedimento di rigetto non potesse rimettere in discussione la legittimità di un avviso divenuto definitivo.
In diritto, poi, la Cassazione evidenziava il principio per cui “In tema di contenzioso tributario, l’annullamento parziale adottato dall’Amministrazione in via di autotutela o comunque il provvedimento di portata riduttiva rispetto alla pretesa contenuta in atti divenuti definitivi, non rientra nella previsione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 e non è quindi impugnabile, non comportando alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui noto e consolidato per la mancata tempestiva impugnazione del precedente accertamento, laddove, invece, deve ritenersi ammissibile un’autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa” (Cass., n. 7511/2016). Cosa che appunto non si era verificata nel caso in giudizio.
La Suprema Corte rileva in conclusione come, in forza di giurisprudenza ormai costante (tra le molte, Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 21146 del 24 agosto 2018; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 24032 del 26 settembre 2019; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 7616 del 28 marzo 2018), nel processo tributario il sindacato sull’atto di diniego dell’Amministrazione Finanziaria di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto, e non la legittimità della pretesa tributaria, e ciò può avvenire comunque solo in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 181 del 2017, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente.
Presupposti di impugnabilità del diniego di autotutela: alcune precisazioni
Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.
L’autotutela non costituisce un mezzo di tutela sostitutivo dei rimedi giurisdizionali. Altrimenti, del resto, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa, o, come era avvenuto anche nel caso in esame, un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.
Il sindacato del giudice tributario sul provvedimento di diniego dell’annullamento dell’atto divenuto definitivo è consentito peraltro solo nei limiti dell’accertamento della ricorrenza di ragioni, originarie o sopravvenute, di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto stesso, dovendo comunque escludersi che il contribuente possa contestare vizi dell’atto impositivo che avrebbe potuto e dovuto far valere in sede di impugnazione, prima che questo divenisse definitivo.
Vero è che l’elencazione degli atti impugnabili, contenuta nell’art. 19 del Dlgs. n. 546 del 1992, tenuto conto dell’ampliamento della giurisdizione tributaria attuato mediante la legge n. 448 del 2001, deve essere interpretata alla luce delle norme costituzionali di buon andamento della P.A. (art. 97 Cost) e di tutela del contribuente (art. 24 e 53 Cost.), dovendosi quindi riconoscere la impugnabilità innanzi al giudice tributario di tutti gli atti dell’Ente impositore che portino a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono.
E vero è che l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del Dlgs. n. 546 del 1992 è pertanto suscettibile di un’interpretazione estensiva, dovendo riconoscersi al contribuente la possibilità di ricorrere alla tutela assicurata dal giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’Ente impositore, e dunque anche in caso di provvedimenti di diniego, o comunque emessi in sede di autotutela, ancorché l’originario provvedimento sia divenuto già definitivo, essendo tali provvedimenti idonei ad incidere sul rapporto tributario.
Tanto premesso, occorre però rammentare che la valutazione circa la sussistenza del presupposto dell’esercizio dell’autotutela dipende comunque dal contemperamento tra l’esigenza di tutelare l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l’interesse, altrettanto pubblicistico, alla stabilità dei rapporti giuridici e pertanto all’incontestabilità degli atti impositivi quando essi siano divenuti definitivi.
Il necessario bilanciamento degli interessi in gioco
È dunque in tali casi necessario un bilanciamento degli interessi in gioco, secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa, confermandosi, anche sotto tale aspetto, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio (cfr., vedi Corte Cost., sent. 13 luglio 2017, n. 181).
E dunque il contribuente, il quale richieda all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione è definitivamente preclusa, ma deve appunto prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto (cfr., Cass., sez. V, 28 marzo 2018, n. 7616).
L’istanza di autotutela del contribuente, come più volte ribadito dalla Cassazione, non determina infatti per l’Amministrazione alcun obbligo giuridico di provvedere e, tanto meno, di agire nel senso prospettato dal contribuente stesso, potendo comunque, come detto, esercitarsi il sindacato nelle sole forme ammesse sugli atti discrezionali e cioè sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa.
Come già riconosciuto anche dalla Corte di Cassazione (Cass., n. 22253 del 30 ottobre 2015), non può infatti escludersi che, trattandosi di attività procedimentalizzata, anche il provvedimento di diniego di autotutela possa essere affetto dai vizi di legittimità propri degli atti amministrativi, non essendovi ragioni per precludere al contribuente la possibilità di esperire i mezzi di tutela per far valere tali vizi di legittimità, che non possono però sovrapporsi ai vizi di validità o di merito fatti (eventualmente) valere con i motivi del ricorso.
Diversamente, del resto, si consentirebbe l’aggiramento del termine di decadenza, previsto a garanzia del principio di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, per l’impugnazione degli atti impositivi, che rimarrebbero quindi esposti a riesame a tempo indeterminato tutte le volte che il contribuente, pur divenuto definitivo l’avviso di accertamento, presenti poi istanza di revisione in autotutela.
Tornando al caso processuale in commento, del resto, da quanto è dato evincere dalla sentenza, si trattava di un caso di autotutela parziale.
E l’annullamento parziale adottato dall’Amministrazione in via di autotutela non è impugnabile, non comportando alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente. L’annullamento parziale non comporta infatti la notificazione di un successivo avviso di accertamento, ovvero di un avviso bonario, ma solo la “comunicazione” al contribuente di quanto disposto in autotutela (cfr., Cass., Ord. n. 27040 del 23 ottobre 2019).
L’autoannullamento non comporta quindi una nuova imposizione, bensì un semplice ridimensionamento unilaterale del credito tributario, così da ingenerare una situazione non dissimile da quella che si definisce - in ambito processuale - di mera riduzione del petitum (sempre ammissibile senza violazione del contraddittorio né dei divieti di mutatio e novità).
L’autotutela parziale, per la quale non rileva neppure il termine decadenziale intervenendo semplicemente a riduzione della pretesa già contenuta nell’avviso notificato, in conclusione, è espressione del rapporto di lealtà e collaborazione tra contribuente ed Amministrazione, laddove solo l’integrazione o la modifica in aumento dell’originario avviso determina una “nuova” pretesa tributaria rispetto a quella originaria, dovendo formalizzarsi nell’adozione di un nuovo avviso di accertamento.
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