Guida completa al contratto di consorzio con definizione, meccanismo di funzionamento e riferimenti normativi
Il consorzio è un contratto con cui più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese.
Il primo riferimento normativo essenziale che definisce questo contratto è l’articolo 2602 del codice civile.
Nell’immaginario collettivo, i consorzi vengono riconosciuti come un istituto giuridico simile all’associazione.
In realtà, questa è una convinzione diffusa erronea. Prima di entrare nel merito, è fondamentale chiarire che consorzi e associazioni, seppur entrambe aggregazioni tra soggetti e/o imprese, presentano tratti caratterizzanti ben distinti.
Il consorzio nasce con uno scopo comune di natura economica, mentre l’associazione non sorge con la medesima finalità.
Inoltre, il primo non costituisce un organismo unitario assorbendo le imprese contraenti, bensì disciplina o svolge solamente alcune fasi della gestione. Infatti, è sempre garantita l’indipendenza e l’unitarietà delle aziende partecipanti, le quali mettono insieme le loro specificità per alcune fasi del processo produttivo puntando ad ottenere un vantaggio comune. Tale obiettivo si definisce mutualistico. Dunque, anche se lo scopo è di natura economica, esso non è di carattere lucrativo.
Il contratto di consorzio
La disciplina civilistica stabilisce l’obbligatorietà della forma per iscritto del contratto, pena la nullità (art. 2603 C.C.).
All’interno devono essere indicati:
- oggetto;
- durata;
- sede dell’eventuale ufficio costituito;
- obblighi e contributi dei consorziati;
- attribuzioni e poteri degli organi consortili;
- i casi di recesso e di esclusione;
- le sanzioni per eventuali inadempimenti contrattuali;
- le condizioni di ammissione dei nuovi consorziati.
In merito a quest’ultimo punto, va infatti precisato che il consorzio è un contratto di adesione aperto.
Possono dunque accedere nuove imprese, rispettando i prescritti requisiti. Se non è previsto diversamente, la durata contrattuale è pari a 10 anni (art. 2604 c.c.). Non può inoltre essere modificato senza il consenso di tutti i consorziati (art. 2607 c.c.).
Le tipologie di consorzi: interni ed esterni, di settore o misti
Il consorzio può regolamentare alcune fasi delle imprese aderenti oppure può aprirsi all’esterno e svolgere attività che lo mettano in contatto con terzi soggetti:
- nel primo caso, il consorzio è di tipo interno;
- nel secondo, si parla invece di consorzio esterno.
In quest’ultima ipotesi, formalmente il consorzio non assume personalità giuridica, ma funge da centro di rapporti giuridici autonomi.
Dunque, l’entità “consorzio” individua la sede dei suoi uffici, assume la responsabilità delle azioni compiute e risponde delle obbligazioni assunte in nome proprio, anche di natura extracontrattuale, avvalendosi del fondo consortile.
Il fondo consortile è costituito dai contributi versati dai consorziati e dai beni acquisiti con tale dotazione. Nel caso di consorzio esterno, questo rappresenta il patrimonio autonomo dell’organizzazione.
Un’altra classificazione è quella che distingue i consorzi di settore da quelli misti:
- i consorzi di settore sono quelli che includono imprese appartenenti al medesimo mercato di riferimento. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai consorzi agricoli;
- i consorzi misti, al contrario, si aprono anche ad aziende non appartenenti allo stesso settore. Ovviamente, deve comunque sussistere un obiettivo comune nella costituzione del consorzio, anche se i consorziati sono privi del requisito della settorialità congiunta.
Il caso della società consortile
Il consorzio di natura esterna può assumere anche la veste di società.
In tal caso, prende il nome di società consortile. La legge 10 maggio 1976 n. 377 ha introdotto questa possibilità introducendo l’articolo 2615-ter al Codice Civile. Nello specifico, si stabilisce che le società già tipizzate dall’ordinamento italiano, tranne quelle semplici, possono assumere come oggetto sociale lo scopo consortile. Sono comprese anche le società cooperative: pertanto, è possibile che si configuri un consorzio cooperativo.
Pur garantendo la massima elasticità organizzativa, dovendo svolgere un’attività a carattere economico e necessariamente esterna, la società consortile deve individuare un consiglio di amministrazione. Per tutto il resto, non esiste una disciplina specifica dedicata alle società consortili. Infatti, mentre per il consorzio tradizionale la normativa civilistica detta precise regole, per le società si rimanda a quelle del tipo prescelto.
Per essere più chiari: se si dà vita ad una S.C.A.R.L., società consortile a responsabilità limitata, allora bisognerà applicare le regole delle SRL.
Se, invece, si costituisce una S.C.P.A., società consortile per azioni, allora la disciplina da adottare è quella delle SPA. E questo provoca alcune problematiche. Infatti, alcune specificità delle società commerciali sono incompatibili con le caratteristiche del consorzio e pertanto dovrà necessariamente essere assicurata la massima flessibilità. Pur presentando una forma a carattere lucrativo tipica delle società commerciali, deve restare inalterato lo scopo mutualistico.
Lo scopo mutualistico
Quest’ultimo si può tradurre in un vantaggio nelle condizioni contrattuali offerte dai fornitori, un risparmio nella fase degli approvvigionamenti, un incremento dei canali distributivi o un miglior posizionamento pubblicitario che può trasformarsi in un rialzo dei prezzi o delle quantità di vendita. La società può anche conseguire degli utili, ma è fondamentale che lo scopo lucrativo non sia mai prevalente rispetto a quello mutualistico.
In caso contrario, infatti, perderebbe le caratteristiche di società consortile, e questo potrebbe avere delle ricadute di natura fiscale.
Il regime fiscale delle società consortili
Come è noto, il presupposto soggettivo dell’IVA prevede che i soggetti passivi pongano in essere cessione di beni e/o servizi nell’ambito dell’esercizio di attività di impresa, arti o professioni. Essendo assoggettata alle norme delle società commerciali, è dunque indubbio che le società consortili siano da considerarsi come soggetti IVA, pur non avendo lo scopo di lucro nel loro statuto. Inoltre, lo stesso art. 4 c. 2 del DPR 633/1972 prevede che si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese […] le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte da altri enti pubblici e privati, compresi i consorzi.
Appurato ciò, la legge del 21/05/1981 n. 240 ha previsto alcune agevolazioni fiscali tuttora in vigore per i consorzi e le società consortili.
In ambito tributario, ad esempio, vi è l’esenzione totale dall’IRES per gli eventuali utili prodotti da parte dei consorzi e delle società consortili costituiti tra piccole e medie imprese operanti nei settori dell’industria, del commercio e dell’artigianato, allo scopo di promuovere lo sviluppo, la razionalizzazione e la commercializzazione dei prodotti delle aziende associate (art. 1 l. 240/81). Ciò a patto che essi siano reinvestiti entro il secondo esercizio successivo a quello in cui sono stati conseguiti.
Ma quale utile va utilizzato per il calcolo del beneficio? L’agevolazione fa riferimento all’utile civilistico post-imposte. Ciò per un motivo anche abbastanza banale: l’utile accantonabile a patrimonio netto non è mai quello ante-imposte. Pertanto, va determinato il reddito netto e iscritto nella sezione “Variazioni in diminuzione”, al rigo “Altre variazioni in diminuzione” (RF 55 nell’ultimo modello unico SC disponibile).
È evidente che gli utili non possono mai essere distribuiti tra i consorziati, sia se trattasi di profitti generati dall’attività economica, sia se trattasi di eccedenze di contributi versati e che si configurano come avanzo di gestione. Su questo secondo punto ci sono visioni differenti, ma la corrente maggioritaria include tali surplus alla stregua degli utili tradizionali. La normativa stabilisce inoltre che gli utili devono essere accantonati in bilancio in un apposito fondo del passivo, vincolato alla realizzazione di investimenti fissi o di iniziative rientranti nell’oggetto del consorzio.
L’accantonamento degli avanzi di gestione consente di comprendere meglio la logica sottostante alla natura dei consorzi.
Seppur vi siano delle eccedenze, queste non vengono restituite alle singole imprese partecipanti, ma permangono all’interno del patrimonio consortile proprio con la finalità di rafforzarne la struttura.
I vantaggi di un consorzio per le imprese aderenti
Detto dei vantaggi fiscali tipicamente previsti per il consorzio, vi sono poi una serie di benefici per le singole imprese aderenti. Generalmente, l’adesione a un gruppo di imprese come quello consortile favorisce l’accesso in settori con forti barriere all’entrata e aumenta il potere contrattuale.
In che modo? Mettendosi insieme, infatti, la forza delle imprese diventa maggiore e questo può consentire di strappare delle condizioni favorevoli, sia verso i fornitori ma anche nei confronti della clientela. Ci sono poi diverse misure locali (regionali, provinciali o comunali) che sono pensate espressamente per i consorzi.
Gli appalti
Infine, un ruolo chiave può essere giocato nella partecipazione a gare di appalto.
Le singole imprese, infatti, possono non essere dotate di una struttura organizzativa e commerciale tale da poter aspirare a ottenere una commessa. Unendo le forze, è molto più probabile avere qualche possibilità di ottenere dei risultati. In tal caso è più corretto parlare di consorzio d’appalto.
In questa fattispecie, la proposta presentata alla stazione appaltante avviene per conto di tutte le imprese aderenti. In caso di accoglimento dell’offerta, sarà il consorzio nella sua interezza a decidere come svolgere le operazioni.
Potrà dunque farsi carico dei lavori una sola impresa appartenente all’aggregazione o, in alternativa, potrà esserci una suddivisione degli incarichi da portare a termine. Ad ogni modo, il rischio è ripartito in modo equo tra i partecipanti.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Il consorzio: definizione, tipologie, obiettivi e regime fiscale