Negli ultimi tempi si parla molto di temi fiscali nel mondo del calcio, analizziamo oggi un caso di cui si sente spesso parlare ma che, altrettanto spesso, non viene approfondito realmente dal punto di vista delle regole fiscali
La Corte di Cassazione, con la recente Ordinanza n. 2376/2023, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di plusvalenze su cessioni di calciatori e relative conseguenze ai fini IRAP.
Nel caso di specie, una società sportiva aveva impugnato il silenzio-rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria alla sua istanza di rimborso di somme versate a titolo di IRAP negli anni 2003 e 2004.
A fondamento dell’istanza la società aveva sostenuto di aver provveduto al versamento dell’imposta in relazione ad operazioni di cessione dei diritti alla prestazione di calciatori, sull’erroneo presupposto che queste generassero plusvalenze soggette a tassazione, mentre, in realtà, dette operazioni comportavano unicamente la risoluzione del contratto originario con il calciatore, cui aveva fatto seguito la conclusione di un nuovo contratto con una diversa società.
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso con sentenza, che, successivamente impugnata dall’Amministrazione, veniva poi confermata dalla Commissione Tributaria Regionale.
Trattamento fiscale delle cessioni dei calciatori: i fatti dell’Ordinanza n. 2376/2023
Nel condividere le argomentazioni poste a fondamento della prima pronuncia, i giudici d’appello rilevavano anzitutto che la L. 23 marzo 1981, n. 91, con la quale era stato abolito il cd. vincolo sportivo, e la L. 18 novembre 1986, n. 586, per effetto della quale l’acquisto di uno sportivo professionista alla scadenza naturale del contratto non comporta alcun corrispettivo a favore della società alla quale il predetto era legato, avevano delineato un sistema in base al quale la cessione del diritto alle prestazioni professionali dei calciatori che si realizza prima della scadenza naturale del contratto determina la semplice risoluzione di quest’ultimo, cui segue la conclusione di un nuovo contratto con altra società.
Così ricostruiti i termini dell’operazione negoziale, la CTR riteneva quindi che il corrispettivo versato alla società contribuente da quella subentrata nel rapporto con i calciatori trasferiti non avesse causa in una cessione di beni strumentali – così da generare un debito di imposta – ma nell’accordo fra le due società per la risoluzione anticipata, da parte del calciatore, del contratto avente ad oggetto le prestazioni sportive.
Tale sentenza veniva infine impugnata dall’Agenzia delle Entrate con ricorso per cassazione.
L’Amministrazione finanziaria, per quanto di interesse, denunciava la violazione degli artt. 3, 4, 5 e 16 della L. n. 91/1981, nonché 2, 4, 5 e 11 del Dlgs. 15 dicembre 1997, n. 446, evidenziando che la disciplina del contratto di lavoro dell’atleta professionista, come tracciata dall’art. 4 della L. n. 91/1981, è assimilabile a quella del rapporto di lavoro subordinato, trovando in particolare la sua funzione tipica nello scambio fra prestazione sportiva e corrispettivo.
La richiamata normativa speciale, peraltro, secondo l’Agenzia, agevola la mobilità degli atleti da una società all’altra, consentendone il trasferimento – con il loro consenso e nel rispetto delle modalità fissate dalle singole federazioni sportive nazionali – anche prima della scadenza del termine stabilito.
Su tale base, assumeva pertanto che l’operazione di cessione dell’atleta professionista dev’essere ricondotta allo schema tipico della cessione del contratto, di cui all’art. 1406 cod. civ., subentrando la società acquirente alla precedente, con il consenso del professionista, in tutti gli obblighi e i diritti connessi.
In tal senso, osservava ancora, il fatto che possano intervenire modifiche di alcuni elementi del rapporto non vale del resto a far ritenere sussistente un’ipotesi di novazione della precedente obbligazione, come conferma anche il fatto che l’art. 5 della L. n. 91/1981, nel prevedere “la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti”, afferma che in essa “le parti, rinnovando il consenso, vale a dire stipulando un nuovo accordo, possono ristabilire la scadenza del rapporto contrattuale già fra loro in essere”.
Tesi che l’Amministrazione corroborava richiamando anche il parere del Consiglio di Stato n. 2585 del 2012, nel quale è stata ritenuta la rilevanza dei trasferimenti in questione ai fini IRAP, sul presupposto che si tratti di cessioni del contratto di utilizzo di prestazioni sportive, dotati di autonoma utilità economica e perciò idonei a generare plusvalenze.
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.
Evidenziano i giudici di legittimità che la questione controversa atteneva, in sostanza, al se il trasferimento del diritto di una società sportiva a godere della prestazione professionale di un atleta – nel caso di specie, un calciatore – attenga ad un bene strumentale dell’impresa, cosicché, ove il corrispettivo ricevuto generi una plusvalenza, quest’ultima sia rilevante ai fini IRAP.
La Cassazione rileva che, prima dell’entrata in vigore della legge n. 91/1981, lo sportivo professionista era legato alla società sportiva dal contratto di prestazione e dal cd. vincolo sportivo, che costituiva un rapporto autonomo e distinto, in base al quale la società acquisiva il diritto di utilizzare le prestazioni dell’atleta per l’intera durata della sua carriera, salva la possibilità di alienare tale diritto a terzi.
La disciplina del rapporto è poi stata interamente ridisegnata dalla menzionata legge, che, all’art. 3, qualifica la prestazione a titolo oneroso dell’atleta come “oggetto di contratto di lavoro subordinato”, regolandone di seguito il contenuto e, all’art. 5, secondo comma, consente che tale contratto sia ceduto a titolo oneroso, prima della sua scadenza, da una società sportiva ad un’altra, con il consenso dell’altra parte e nel rispetto delle previsioni stabilite dalle federazioni sportive nazionali.
In tale tessuto normativo si inseriva, poi, l’art. 11, comma 3, del Dlgs. n. 446/1997, all’epoca vigente, a mente del quale “ai fini della determinazione della base imponibile di cui agli articoli 5, 6 e 7 concorrono […] in ogni caso, le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda”.
Tanto premesso, secondo la prospettazione della contribuente, condivisa dai giudici di merito, tale operazione non sarebbe tuttavia sussumibile sotto lo schema della cessione del contratto, dato che il trasferimento della prestazione sportiva prima della naturale scadenza del rapporto darebbe invece vita ad un più articolato meccanismo, dapprima attraverso la risoluzione anticipata dell’originario contratto fra l’atleta e la società, e, quindi, con la conclusione di un diverso contratto fra il medesimo e la nuova società sportiva.
Pertanto, l’eventuale corrispettivo versato da quest’ultima troverebbe la sua causa nell’attribuzione alla stessa del diritto a contrarre con l’atleta in seguito alla risoluzione anticipata del rapporto con la società cedente.
Questa impostazione, tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, non può essere condivisa.
La posizione della Corte di Cassazione sul trattamento fiscale delle cessioni dei calciatori
Rilevano infatti i giudici che, in primo luogo, l’affermazione del fatto che, nella specie, ricorrerebbero dapprima la risoluzione anticipata del contratto in essere e, poi, la conclusione di un diverso contratto, previo pagamento, da parte della nuova società, di una somma corrispondente al “valore del diritto a contrarre”, varrebbe a negare la sussistenza di una cessione del contratto nel senso espressamente richiesto dall’art. 5, secondo comma, della L. n. 91/1981, posto che, così argomentando, non potrebbe essere mai trasferito il precedente rapporto, ormai risolto.
Quanto, poi, al fatto che il nuovo rapporto possa essere diversamente regolato, ad esempio in termini di corrispettivo o di durata, si tratta di circostanza non significativa di una novazione, e come tale idonea a precludere la riconducibilità della fattispecie allo schema della cessione del contratto.
Come anche osservato in dottrina, infatti, le modifiche al contenuto del rapporto sono pur sempre compatibili con l’intento dei contraenti di mantenere il rapporto originario, ove ciò appaia conforme agli interessi delle parti del negozio di cessione.
E, in questo senso, il trasferimento di un atleta da una società ad un’altra costituisce certamente un’operazione economica a carattere unitario, della quale si potrebbe predicare un frazionamento solo ove ciò fosse funzionale al soddisfacimento di interessi meritevoli di tutela; quali però non erano quelli che emergevano nella specie, laddove la “scomposizione” della vicenda traslativa appariva giustificata unicamente dall’intento di evitare il pagamento di un’imposta.
Rileva ancora la Corte che la tesi adottata dai giudici d’appello avrebbe peraltro reso priva di valore la prescrizione del consenso del ceduto al trasferimento, che non avrebbe ragion d’essere laddove egli dovesse soltanto accettare la risoluzione anticipata del contratto con la società di provenienza.
E pure il versamento a quest’ultima di un corrispettivo da parte della nuova società sarebbe, in sé considerato, privo di causa.
Infine, secondo la Corte, non era neppure privo di rilievo il fatto che il diritto all’utilizzo esclusivo delle prestazioni di un atleta sia un bene dotato di una autonoma utilità economica, come tale suscettibile di negoziazione diretta fra società e qualificabile come bene immateriale strumentale all’esercizio dell’impresa.
In tal senso, ricordano i giudici, si è del resto espresso anche il Consiglio di Stato con il parere n. 5285 del 2012, richiamato anche dalla ricorrente, in termini poi sostanzialmente condivisi dalla giurisprudenza della Cassazione (Cass. n. 2144/2019; Cass. n. 345/2019; Cass. n. 24588/2015).
In conclusione, la Corte afferma quindi il seguente principio di diritto:
“Il trasferimento di un atleta professionista da una società sportiva ad un’altra, laddove disposto dietro corrispettivo prima della scadenza naturale del rapporto contrattuale in corso, è riconducibile allo schema della cessione del contratto nei termini previsti dall’art. 5, secondo comma, della L. n. 91/1981; esso, pertanto, dal punto di vista fiscale rappresenta un’operazione equiparabile alla cessione di un bene immateriale, suscettibile di generare una plusvalenza e, dunque, soggetta ad IRAP”.
Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali giova anche evidenziare quanto segue.
Nel calcio la plusvalenza è il guadagno che una società trae dalla cessione di un calciatore ed è una delle principali voci di ricavo dei club professionistici.
Analizzando i bilanci delle società calcistiche, ci si rende dunque conto che, insieme ai diritti televisivi e ai ricavi commerciali e da stadio, i proventi per la gestione dei diritti dei calciatori rappresentano una delle voci più importanti del conto economico.
Ma come si formano le plusvalenze in caso di cessione dei calciatori?
Nel settore del calcio la plusvalenza (o minusvalenza) è data dalla differenza tra il valore di cessione del cartellino di un calciatore, rispetto al valore residuo (al netto dell’ammortamento) del valore del cartellino iscritto in bilancio da parte del club cedente.
Per ogni cartellino di un calciatore è infatti iscritto a bilancio un valore contabile.
Quel valore indica sostanzialmente la quota rimanente dell’investimento iniziale (costo storico) per l’acquisto del calciatore stesso, che deve ancora essere ammortizzata dal club.
Per una società di calcio, pertanto, i calciatori rappresentano (contabilmente) delle “immobilizzazioni immateriali”, il cui valore può anche crescere nel tempo.
La plusvalenza è data dunque, in questi casi, dall’incremento di valore che il calciatore ha realizzato nel corso del tempo, dal momento in cui è entrato a far parte della squadra al momento in cui viene ceduto.
Laddove quindi la società di calcio ceda un giocatore precedentemente acquistato, il calcolo della plusvalenza deve prendere in considerazione l’ammortamento annuo del calciatore già imputato in bilancio.
In sostanza, più basso è il valore contabile del cartellino del calciatore e più elevata sarà la plusvalenza che si ottiene dalla cessione.
Per calcolare questo valore è necessario partire dall’investimento iniziale (la cifra pagata per il cartellino), che viene diviso per il numero di anni di contratto in parti uguali, e la cui quota viene ammortizzata di anno in anno fino a che il valore non è pari a zero.
Tanto premesso, da un punto di vista prettamente giuridico, è evidente che il mondo del calcio presenta una complessità (anche fiscale) a volte sottovalutata.
Proprio in tema di plusvalenze, del resto, la giurisprudenza della Cassazione ha già avuto modo di esprimersi, più volte, affermando, in linea con la pronuncia in commento, che, in caso di cessione di un calciatore fra società sportive, oggetto del contratto è il diritto alla prestazione sportiva esclusiva per la durata del contratto stesso e tale diritto deve essere considerato un bene immateriale strumentale, generando quindi una plusvalenza o minusvalenza e rientrando il trasferimento del calciatore nella gestione ordinaria “accessoria” della stessa società sportiva.
La cessione del contratto, secondo tale impostazione, realizza dunque sempre una immobilizzazione, in quanto non esaurisce la propria utilità in un solo esercizio, ma manifesta i suoi benefici economici lungo un arco temporale di più esercizi, essendo assimilabile ai beni immateriali, ed ammortizzabile ai sensi dell’art. 68 Dpr 917/1986.
Pertanto, il compenso derivante dalla cessione del bene immateriale strumentale genera plusvalenza o minusvalenza; e nel conto economico di cui all’art. 2425 c.c. le plusvalenze vanno indicate alla voce A n. 5 “altri ricavi e proventi”, e non come proventi straordinari di cui alla voce del conto economico E 20.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Il trattamento fiscale delle cessioni dei calciatori