Il commercialista che trattiene per sé le somme che gli erano state consegnate dai propri clienti per il pagamento di oneri fiscali e previdenziali assume una condotta dolosa. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con la Sentenza numero 21992 del 2019.
È dolosa la condotta del commercialista incaricato che trattiene per sé le somme che gli erano state consegnate dai propri clienti per il pagamento di oneri fiscali e previdenziali. Inoltre l’abuso di relazioni aggrava il reato di appropriazione indebita in ragione del rapporto di fiducia tra cliente e professionista che agevola la commissione del delitto.
Sono queste le precisazioni fornite dalla Corte di Cassazione con la Sentenza numero 21992 del 20 maggio 2019.
- Corte di Cassazione - Sentenza numero 21992 del 20 maggio 2019
- È appropriazione indebita aggravata se il commercialista trattiene le somme dei clienti. A stabilirlo la Corte di Cassazione con la sentenza numero 21992 del 20 maggio 2019.
La sentenza – Il caso riguarda la sentenza di condanna della Corte di appello con cui è stata confermata la responsabilità penale in capo ad un dottore commercialista per il reato di appropriazione indebita, avendo questi illecitamente trattenuto le somme che gli erano state consegnate dai propri clienti per il pagamento di oneri fiscali e previdenziali in quanto soggetto incaricato della tenuta della loro contabilità.
Il professionista proponeva ricorso in cassazione avverso la sentenza di condanna, lamentando l’assenza di dolo avendo egli abbandonato la professione, che rimaneva in capo allo studio associato gestito dall’ex coniuge. Il ricorrente ha invocato la buona fede, dimostrata dalla sua disponibilità a valutare le posizioni fiscali dei clienti, anche in collaborazione con il nuovo commercialista che gli era succeduto nel frattempo. Egli inoltre ha affermato la mancanza di prova del fatto che la provvista consegnata dai clienti - costituita nello specifico da assegni e contante - non fosse stata movimentata, con la conseguente esclusione di qualsiasi appropriazione o profitto.
La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il motivo di ricorso e confermato non solo l’appropriazione indebita ma anche eccepito l’aggravante per abuso della prestazione d’opera quale professionista incaricato.
In primo luogo i giudici di legittimità hanno escluso il carattere colposo delle condotte dell’imputato in conseguenza della contemporanea pendenza di un giudizio di separazione personale che coinvolgeva il professionista. A sostegno della tesi della presenza del dolo è stato rilevato che gli inadempimenti in ordine ai pagamenti tributari si erano protratti per diversi anni, senza che il professionista avesse mai dato notizia alcuna ai propri clienti e restituito le somme, nonostante la condanna in sede civile.
In secondo luogo il comportamento del commercialista ravvisa anche gli estremi dell’abuso di relazioni di prestazioni d’opera che integra la circostanza aggravante. Infatti a parere della Corte è configurabile abuso - e non uso - di prestazione d’opera ogniqualvolta:
- si instauri un rapporto di fiducia reciproca che agevoli la commissione del reato;
- il rapporto giuridico tra le parti comporti, a qualunque titolo, un vero e proprio obbligo di facere.
Nel caso di specie sono stati riconosciute entrambi i requisiti nel rapporto instaurato tra imputato e clienti-parti offese, connessi all’attività professionale del primo, “che aveva assunto l’obbligo di provvedere agli adempimenti fiscali delle parti offese medesime con il danaro all’uopo ricevuto”. A parere della Corte l’imputato ha certamente tratto un illecito vantaggio dal rapporto d’opera instaurato con la propria clientela, approfittando delle condizioni favorevoli create dal preesistente rapporto di lavoro, il che rende palese la sussistenza di tutti gli elementi strutturali della applicata aggravante.
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