Il mobbing si può descrivere come una serie prolungata di azioni persecutorie che si realizzano principalmente in ambiente lavorativo. Cerchiamo però di chiarire più nello specifico che cos'è effettivamente il mobbing e chi ne può essere vittima.
Il mobbing si concretizza in una serie di azioni ostili e protratte nel tempo e che hanno l’effetto di sfavorire o nuocere una determinata persona. Anche se frequentemente ricondotto all’ambito lavorativo, il termine mobbing non si riferisce di per sé ad un particolare ambito o occupazione.
La casistica degli atti che possono essere etichettati come mobbing non è determinata in maniera stabile ma vi possono rientrare in generale maltrattamenti, vessazioni, atti persecutori, soprusi, controlli ingiustificati superiori alla media, conferimento di mansioni inferiori alla propria qualifica. Le motivazioni che possono scatenare il mobbing sono varie e arrivano anche coinvolgere la razza, gli orientamenti sessuali, convincimenti etici o politici della persona.
Nella legislazione italiana non si riscontra nessun articolo specifico che regolamenta e tutela in particolare la pratica del mobbing; ciò però non significa che la vittima di questi atti non abbia alcuna protezione nel nostro ordinamento. Gli atti e le azioni che possono essere considerate come mobbing sono infatti soggetti alle forme di tutela contrattuale e extracontrattuale, arrivando anche a configurare situazioni che possono ricadere nell’ambito della giurisprudenza penale.
Cos’è il mobbing e come si identifica?
Si può parlare di mobbing quando si è in presenza nell’ambiente di lavoro di una serie di azioni che possono ledere la salute psicofisica della persona e che risultano prolungante nel tempo. Può anche darsi il caso che gli atti, scollegati l’uno dall’altro e non disposti in sequenza, non siano in sé stessi perseguibili: anche in queste situazioni però può concretizzarsi l’accusa di mobbing dal momento che a fare la differenza è la loro messa in atto costante e reiterata nel tempo.
Il mobbing può arrivare a creare una situazione di costrizione psicologica da parte di chi ne è vittima e può anche sfociare in sintomi sia psicologici che fisici più o meno gravi. A volte le pratiche persecutorie possono spingersi fino a provocare danni alla salute di chi ne viene reso oggetto.
A definire in maniera precisa le caratteristiche delle azioni definibili come mobbing è intervenuta la Corte di Cassazione nel 2015 con la sentenza n. 10037. Nel pronunciamento vengono riconosciti 7 criteri sulla base dei quali è possibile parlare effettivamente di azioni “mobbizzanti”. Questi caratteri permettono di individuare con una certa precisione quelle situazioni che potrebbero essere di diritto etichettate come persecuzione sul luogo di lavoro.
I 7 parametri che accompagnano il mobbing sono:
- ambiente: gli atti persecutori devono svolgersi all’interno dell’ambito lavorativo;
- durata temporale: le azioni in questione non devono essere legate ad eventi episodici;
- frequenza: gli atti non devono essere troppo distanti nel tempo tra di loro;
- tipo: il mobbing si sviluppa a seguito di una certa tipologia di atti che possono comportare minacce, esclusioni dall’ambiente di lavoro, isolamento, violenze;
- dislivello tra gli antagonisti: spesso il mobbing viene attuato ai danni di un sottoposto;
- andamento secondo fasi successive: il mobbing si struttura in un crescendo che viene originato da una situazione di conflitto mirato e si sviluppa con un’aggravamento della condizione di chi ne è oggetto e che porta un aumento dello stress e del carico emotivo;
- intento persecutorio: deve poter essere rivelabile lo scopo deliberato di nuocere alla persona.
I criteri citati possono essere importanti anche a titolo illustrativo per comprendere quali siano i segni concreti che possono accompagnare un’azione mobbizzante. Da un punto di vista generale in questi casi si assiste ad una violazione dell’obbligo del datore di lavoro di proteggere l’integrità fisica e la personalità morale del proprio lavoratore.
Si possono ascrivere alla galassia del mobbing una grande quantità di atti vessatori o di persecuzione volontaria. Si può andare dalla semplice marginalizzazione che può comportare l’esclusione del dipendente o la minimizzazione della sua opinione o delle sue osservazioni fino al trasferimento forzato. Il mobbing di frequente comporta per chi ne è oggetto lo svolgimento di compiti poco gratificanti o dequalificanti nei quali è viene compromessa la dignità del dipendente.
Mobbing: le varie tipologie di vessazione sul luogo di lavoro
Anche se di solito sono le figure gerarchiche superiori che pongono in essere azioni di mobbing nei confronti dei loro sottoposti, è anche possibile che vittima e responsabile delle azioni siano persone di pari livello. A volte e in casi più rari può accadere che le parti si invertano e che la vittima risulti essere il superiore.
I casi più frequenti di mobbing sono quelli a carattere verticale che può anche prendere il nome di bossing. In queste situazioni è il superiore che pone in essere una penalizzazione ingiustificata e mirata nei confronti di un suo sottoposto facendo valere i vantaggi che derivano dalla propria posizione di superiorità.
Si riscontrano però anche casi di mobbing orizzontale che si svolgono tutti tra colleghi di pari grado: in queste situazioni una o più persone possono rivolgersi contro un altro lavoratore al loro stesso livello. Un’ultima tipologia di mobbing è quello ascendente, cioè praticato ai danni di un superiore. In questi casi può avvenire che gruppi di dipendenti si coalizzino contro il proprio capo ostacolandone le decisioni e le funzioni anche con atti di ribellione e per mezzo di critiche immotivate.
Mobbing: tipologie e modalità di risarcimento
Il mobbing può causare una serie di danni più o meno gravi o permanenti alla salute del lavoratore. Nel caso sia riscontrato in sede giudiziaria un effettivo atto persecutorio si può procedere alla richiesta di risarcimento e alla reintegrazione della posizione precedente se era stata perduta.
Va detto che l’onere della prova in casi di questo tipo è tutta a carico del lavoratore che dovrà riuscire ad indicare con precisione i fatti e le situazioni etichettabili come mobbing. In particolare dovrà essere esibito il nesso causale che lega gli atti vessatori con i danni che si ritiene siano stati subiti dal lavoratore.
A tal fine si potrà fare ricorso alle testimonianze dei colleghi che però sono di frequente difficili da reperire perché gli altri lavoratori spesso possono non volersi esporre in casi di mobbing effettivo. È per questo che si può anche ricorrere in queste situazioni alla semplice presunzione ovvero alla ricostruzione della finalità degli atti sotto osservazione sulla base delle circostanze in cui si sono svolte.
Il risarcimento dovuto per atti mobbizzanti può essere calcolato sulla base di due parametri fondamentali. Il danno per il quale si richiede una compensazione infatti può essere sia patrimoniale che non patrimoniale. Nel primo caso rientrano gli esborsi effettivi che una persona ha dovuto sostenere dopo essere stata vittima di mobbing come, per esempio, i costi di eventuali cure psicologiche o quelli derivanti da un trasferimento forzato.
Il risarcimento per i danni non patrimoniali sono più difficili da calcolare e spesso possono far ricorso all’ausilio di un medico legale. In questa categoria rientrano tutte le conseguenze sulla salute sia fisica che soprattutto psicologica del dipendente e che può dare luogo a danni da mobbing temporanei o permanenti.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Cos’è il mobbing?