Obblighi di fare, non fare, permettere: le parti possono liberamente costruire un negozio per un fine lecito e all'Ufficio erariale spetta poi la sussunzione dei negozi atipici nelle fattispecie tipiche previste dall'ordinamento tributario. La discrezionalità insita nell'esercizio del potere amministrativo dev'essere però orientata dal principio di autonomia privata
La recente giurisprudenza di merito si è più volte espressa sulle modalità di tassazione in caso di accordi transattivi da individuare nella fattispecie degli obblighi di fare, non fare e permettere.
Nel caso oggetto della nostra analisi di oggi - tratto dalla famosa sentenza numero 1046/2022 della Corte di Cassazione - la parte contribuente, azionista di una Banca Popolare, si era opposta, assieme ad altri piccoli azionisti, all’emissione di un prestito obbligazionario con conversione in azioni riservato ad altro Istituto, motivando sulla violazione del diritto di opzione riservato ai soci e denunciando la surrettizia operazione tesa a far passare il controllo dell’Istituto finanziario.
Tassazione degli obblighi di fare, non fare, permettere: i punti chiave della Sentenza della Corte di Cassazione
Nel corso del giudizio, teso a far dichiarare la nullità delle deliberazioni societarie assunte, dopo una vittoria in primo grado dei piccoli azionisti, si giungeva ad una transazione, prevedendo l’abbandono della lite a fronte della corresponsione di una somma, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno degli attori.
In vista delle somme da ricevere, veniva quindi proposto interpello circa il loro regime fiscale, ritenendole, in prima battuta, totalmente esenti, in quanto sostanziale restituzione di capitale societario e, in subordine, soggette a tassazione separata al 12,5 per cento, quali rinuncia al diritto di opzione (cessione a titolo oneroso di partecipazioni non qualificate).
Per contro, l’Ufficio affermava trattarsi di somme ricevute quale corrispettivo per l’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, attraendoli al regime dell’art. 67, comma 1, lett. I), Dpr. n. 917/1986.
La contribuente richiedeva poi la differenza dell’eccedenza sulla tassazione separata all’aliquota del 12,5 per cento ed impugnava il silenzio rifiuto, con esito negativo in primo grado e riformato in appello, dove la Commissione Tributaria Regionale apprezzava in parte le sue ragioni.
L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione art. 67, primo comma, lett. I) e c bis) Dpr. n. 917/1986, nella sostanza contestandosi trattarsi di somme ricevute per cessione di diritto di partecipazione, all’opposto dovendosi individuare la causa negoziale nella transazione, come assunzione di obblighi di fare, non fare, tollerare.
Secondo la Suprema Corte la censura era infondata.
Tassazione degli obblighi di fare, non fare, permettere: la posizione della Corte di Cassazione
Evidenziano i giudici di legittimità che occorreva innanzitutto indagare cosa fosse stato effettivamente “remunerato” con l’atto transattivo sottoscritto fra la contribuente e l’Istituto di credito.
Ponendo fine alla lite insorta, la parte contribuente aveva infatti rinunciato a far valere il suo diritto di opzione, cioè una parte significativa dei diritti connessi al suo status di socio della Banca.
Questo era avvalorato da tre elementi:
- a) dalla circostanza che proprio la lesione di quel diritto aveva indotto la parte contribuente a fare causa alla Banca;
- b) dalla circostanza che con l’abbandono della lite in appello (vittoriosa in primo grado) la parte contribuente rinunciava a far valere il suo diritto di opzione, lasciando libera la controparte di sottoscrivere per l’intero il prestito obbligazionario convertito forzatamente in azioni;
- c) dalla circostanza che il risarcimento accordato fosse commisurato, per ciascun socio, alla sua partecipazione societaria, e quindi proporzionato al diritto di opzione rinunciato, e non ad un obbligo di fare, non fare o permettere.
Infine, rileva la Cassazione, era significativa anche la Circolare dell’Amministrazione finanziaria n. 10 dicembre 2004, n. 52/E, che, al punto 2.2.5., attrae ai redditi diversi di cui all’art. 67, primo comma, lett. c) bis “la cessione di partecipazione, titolo o diritti che rappresentano una percentuale complessiva di diritti di voto ovvero una partecipazione al capitale o al patrimonio”, tale dovendosi considerare anche la rinuncia al diritto di opzione che era alla base della transazione stipulata con la Banca e occasione delle somme percepite.
Sotto altro profilo, evidenziano ancora i giudici, la tesi erariale provava troppo, laddove guardare agli obblighi di fare, non fare o tollerare come categoria autonoma e generale della transazione, significherebbe accordare a quell’istituto una funzione novativa anche sotto il profilo fiscale, con la conseguenza che ogni operazione - più o meno fiscalmente onerosa, ovvero di tassazione incerta- potrebbe essere oggetto di transazione al solo fine di far ricadere quanto corrisposto nella categoria generale e sussidiaria degli obblighi di fare, non fare o tollerare.
In tal modo, conclude la Corte, sarebbe rimesso alla disponibilità delle parti uno strumento consensuale per il mutamento surrettizio del regime fiscale imposto dal legislatore nell’esercizio della sua riserva e in contrasto con il principio di capacità contributiva.
In sostanza, bisogna invece in questi casi guardare alla ratio ed alla natura dei diritti dedotti in transazione, per fondare su quelli (e non su questa) il regime fiscale appropriato.
Per un corretto inquadramento fiscale, occorre del resto sempre tenere fermo il principio dell’autonomia contrattuale nel diritto civile, cui segue, per trascinamento, la qualificazione fiscale.
Le parti possono infatti liberamente costruire un negozio o una serie di obbligazioni, nel perseguimento di un fine lecito, spettando poi all’Ufficio erariale la sussunzione dei negozi atipici nelle fattispecie tipiche previste dall’ordinamento tributario.
La discrezionalità insita nell’esercizio del potere amministrativo dev’essere quindi orientata dal principio di autonomia privata, che lega il momento civile privatistico a quello tributario pubblicistico, dovendo l’Amministrazione finanziaria comunque rilevare la causa e lo scopo perseguiti con l’operazione posta in essere dalle parti, per ricavarne poi la più corretta qualificazione tributaria.
Su questo “schema” si regge dunque il potere dell’Agenzia delle Entrate di disattendere gli atti privati che non abbiano scopo diverso dal mero risparmio fiscale.
Applicando tali principi al caso di specie, in definitiva, la transazione in esame doveva essere vista come frutto dell’autonomia negoziale privata, allo scopo restitutorio o ripristinatorio del diritto societario pregiudicato dal prestito obbligazionario con conversione forzata e già oggetto di lite fra soci ed istituto di credito concedente il prestito obbligazionario, per la cui definizione le parti, come visto, erano addivenute ad un accordo, facendosi reciproche concessioni e mantenendo la misura della partecipazione societaria come metro per la quantificazione del tantundem.
A quest’impostazione applicativa si era pertanto correttamente attenuta la Commissione Tributaria Regionale, la cui sentenza, secondo la Corte, era quindi esente da censure.
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