Se l'inoperatività dipende dalla conclusione del fallimento, la società non è di comodo. Lo chiarisce la Corte di Cassazione con la Sentenza numero 16810/2023
Nel caso di una società in liquidazione che non soddisfi il “test di operatività” sulle società di comodo, la necessità di attendere il riparto finale di un fallimento al fine di incassare un rilevante credito chirografario, nonché la difficoltà di alienare alcune partecipazioni possedute dalla società contribuente possono essere considerate circostanze estranee alla dinamica della gestione delle imprese quelle oggettive situazioni, tali da disapplicare la disciplina delle società non operative.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 16810 del 13 giugno 2023 in tema di società di comodo.
Inoperatività legata alla conclusione del fallimento: la società non è di comodo
La vicenda prende le mosse dal ricorso proposto da una società in liquidazione avverso il rigetto di un interpello disapplicativo ex art. 37-bis, comma 8, DPR 29 settembre 1973, n. 600, relativo a una istanza di interpello.
La società contribuente ha dedotto l’esistenza di situazioni oggettive tali da impedirle il superamento del test di operatività, quali lo stato di liquidazione e la composizione dell’attivo patrimoniale della società, consistente in partecipazioni, non ancora oggetto di cessione e di difficile liquidazione, nonché in un credito chirografario vantato nei confronti di un fallimento di cui si attendeva il riparto finale.
La CTP ha dichiarato inammissibile il ricorso e il giudizio è giunto in dinanzi alla CTR, i cui giudici hanno accolto l’appello della società, ritenendo sussistente per il contribuente l’interesse a impugnare la risposta all’interpello da parte dell’Ufficio. I giudici, decidendo nel merito, hanno ritenuto fondato l’interpello della società contribuente, perché il perdurare dello stato di liquidazione era dovuto alla necessità di attendere l’approvazione del riparto finale di un fallimento e alla necessità di cedere le partecipazioni detenute.
L’Ufficio finanziario ha impugnato la decisione d’appello lamentando l’operato dei giudici, che hanno, da un lato, ritenuto ammissibile il ricorso avverso il rigetto di un’istanza di interpello e accolto le doglianze di merito della società.
In particolare, l’Amministrazione finanziaria ha dedotto l’insussistenza delle oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi e di reddito determinati sulla base del test di operatività della società contribuente, deducendo che la circostanza dell’attesa del riparto finale in un fallimento e la difficoltà di cessione delle partecipazioni non possono considerarsi circostanze oggettive impeditive del superamento del test di operatività.
In via preliminare la Corte di cassazione ha chiarito che la risposta negativa delle agenzie fiscali a un interpello disapplicativo è atto impugnabile, anche se non rientra tra quelli elencati dall‘art. 19 DLgs. n. 546/92, in quanto con tale atto l’ente impositore porta a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria ben individuata.
La società non è di comodo se l’inoperatività è legata alla conclusione del fallimento: la posizione della Corte di Cassazione
Passando al merito della controversia, il tema gira sulla valutazione della concreta operatività imprenditoriale della società contribuente, da cui dipende l’applicabilità della normativa prevista in materia di società di comodo e, quindi, l’opponibilità all’Amministrazione finanziaria della summenzionata deroga.
Si premette che il cd. “test di operatività” consiste nel raffronto tra la somma dei ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati in conto economico ai ricavi presunti, calcolati applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.
Se i componenti dichiarati sono inferiori a quelli presunti si applica una presunzione legale relativa in base alla quale la società si considera “non operativa”. La disciplina prevede, inoltre, la possibilità di presentare istanza di interpello, al fine di chiedere la disapplicazione delle disposizioni antielusive, in presenza di situazioni oggettive, ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore, che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito.
A riguardo il Collegio di legittimità ha stabilito in passate pronunce che attraverso tale disciplina si intende disincentivare il fenomeno dell’uso improprio dello strumento societario, utilizzato come involucro per raggiungere scopi, anche di risparmio fiscale, diversi - quale l’amministrazione dei patrimoni personali dei soci - da quelli previsti dal legislatore per tale istituto (cosiddette società senza impresa, o di mero godimento, dunque “di comodo”); “il meccanismo deterrente consiste nel fissare un livello minimo di ricavi e proventi correlato al valore di determinati beni patrimoniali, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società (nel senso ora indicato), con conseguente presunzione di un reddito minimo, stabilito in base a coefficienti medi di redditività dei detti elementi patrimoniali di bilancio”.
Dal lato dell’onere della prova, consistendo il mancato superamento del test una presunzione iuris tantum di inoperatività, spetta al contribuente dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e specifiche, indipendenti dalla propria volontà, tali da rendere impossibile il raggiungimento della soglia di operatività e del reddito minimo presunto.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, l’esistenza di oggettive situazioni tali da integrare la prova contraria in caso di mancato superamento del test di operatività, va valutata non in termini assoluti, ma inerenti alle effettive condizioni del mercato, idonee a dimostrare l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività.
L’oggettività della situazione che abbia impedito il superamento del test di operatività si caratterizza come estranea alla ordinaria attività di impresa, sicché non può riconoscersi nel caso in cui il mancato conseguimento dei ricavi discenda da una scelta volontaria dell’imprenditore o da una sua scelta, quanto meno consapevole In altre parole deve trattarsi di una situazione estranea alla dinamica della gestione dell’impresa, tale da impedire lo svolgimento dell’attività secondo risultati reddituali conformi agli standard minimi legali.
Pertanto, in linea generale, al contribuente sarà sufficiente addurre la prova contraria dell’esistenza di specifici fatti, non dipendenti dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impediscano lo svolgimento dell’attività di impresa con risultati reddituali conformi agli standards minimi legali.
Nel caso di specie il giudice di appello ha individuato in circostanze estranee alla dinamica della gestione delle imprese quelle oggettive situazioni tali da impedire il superamento del test di operatività, quali la necessità di attendere il riparto finale di un fallimento al fine di incassare un rilevante credito chirografario, nonché la difficoltà di alienare alcune partecipazioni possedute dalla società contribuente.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: La società non è di comodo se l’inoperatività è legata alla conclusione del fallimento