Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono espresse sui rapporti tra sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per reati tributari, e dichiarazione di fallimento
In caso di dichiarazione di fallimento, intervenuta anteriormente alla adozione di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per reati tributari e riguardante beni attratti alla massa fallimentare, l’avvenuto spossessamento del debitore per effetto dell’apertura della procedura concorsuale non osta al sequestro stesso, attesa la obbligatorietà della confisca cui la misura cautelare è diretta.
Questo il principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 40797 del 2023.
Rapporti tra sequestro e fallimento: il caso di specie
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame aveva rigettato l’appello proposto dalla Curatela di un Fallimento avverso il provvedimento con cui era stata rigettata la richiesta di dissequestro di beni rappresentati dalle quote del capitale sociale di una società e dall’intera proprietà della porzione di un immobile, oggetto di sequestro da parte del GIP nell’ambito di un procedimento penale per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 Dlgs. 10 marzo 2000, n. 74.
Sosteneva in particolare la Curatela che, in realtà, essendo precedentemente già intervenuta la dichiarazione di fallimento il debitore erariale era stato privato dell’amministrazione e della disponibilità dei beni sociali.
Il Tribunale aveva respinto la richiesta di dissequestro, sostenendo che:
“il sequestro preventivo [...] prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale [..] attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto fra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura.”
Rilevava il Tribunale come tale conclusione fosse stata del resto fatta propria anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr., Cass., n. 3575/2022), precisando, inoltre, che tale orientamento trova conforto anche nella disciplina fissata dagli artt. 317 ss. del Dlgs. 12 gennaio 2019, n. 14, nei quali è sancita la prevalenza delle misure cautelari reali rispetto alle procedure concorsuali, limitatamente alle sole ipotesi di sequestro preventivo strumentale alla confisca ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., rimanendo, invece, la stessa esclusa quanto al sequestro conservativo e ridotta solo a talune ipotesi nel caso di sequestro preventivo con finalità impeditive.
Il Tribunale escludeva, infine, qualsiasi rilevanza, ai fini della prevalenza del sequestro sulla procedura concorsuale, del dato relativo alla disponibilità dei beni presso il fallito, posto che la natura e la funzione del sequestro a fini di confisca prescindono da tale dato, rilevando come comunque, in tal modo, non si determinasse alcuna violazione del principio della par condicio creditorum.
Nel ricorso per cassazione la Curatela deduceva che il Tribunale aveva errato nell’interpretare, con riferimento al tenore testuale dell’art. 12-bis del Dlgs. n. 74 del 2000, l’espressione, in esso contenuta, limitativa del potere di confisca, “salvo che appartengano a persona estranea al reato”, rilevando che, una volta dichiarato il fallimento, il soggetto attinto dalla procedura è spossessato dei propri beni, con conseguente perdita della loro disponibilità, tanto che la sentenza dichiarativa del fallimento è soggetta a trascrizione e la vendita dei beni fallimentari è realizzata attraverso un atto sottoscritto dal curatore, cui passa pertanto anche il possesso materiale e giuridico dei beni attratti alla massa fallimentare.
Aggiungeva, infine, la ricorrente che tanto più sarebbe dimostrata la erroneità dell’apprensione dei beni già nella disponibilità dei soggetti falliti a seguito di sequestro preventivo, laddove, come nella specie, il fallimento fosse stato già dichiarato anteriormente alla adozione della misura cautelare.
La stessa Curatela riteneva inoltre errata la ritenuta assenza di violazione della par condicio creditorum, rilevando che la posizione del Fisco era comparabile con quella degli altri creditori ed anzi era recessiva rispetto a quella di molte categorie di creditori privilegiati, con la conseguenza che il mantenimento del sequestro farebbe sì che l’Erario troverebbe un soddisfacimento preferenziale anche a discapito di quei creditori che, nell’ambito di un ordinario piano di riparto dell’attivo fallimentare, sarebbero stati ad esso preferiti.
Né, ad avviso della ricorrente, l’argomento poteva essere superato attraverso la valorizzazione della natura sanzionatoria della confisca, posto che l’ordinamento sanzionerebbe così il reo con il sacrificio dei creditori fallimentari, soggetti però del tutto estranei al reato.
La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione rimetteva quindi il ricorso alle Sezioni Unite, avendo la questione dato luogo, nella giurisprudenza di legittimità, ad un contrasto interpretativo.
Sequestro e fallimento: il parere della Corte di Cassazione
Secondo le Sezioni Unite il ricorso era infondato.
Evidenziano in particolare i giudici di legittimità che sul tema si confrontano, in effetti, due opposti orientamenti:
- il primo, espressione della tesi della prevalenza funzionale della misura ablatoria penale;
- il secondo, che dà invece prevalenza al criterio di priorità temporale, sul presupposto della recessività della misura cautelare rispetto alla procedura concorsuale.
Gli argomenti addotti a sostegno del primo orientamento, ricorda la Cassazione, si fondano, anzitutto, sul fatto che i beni attratti alla massa fallimentare non possono considerarsi beni “appartenenti a persona estranea al reato”, con la conseguenza che la dichiarazione di fallimento dell’imputato non osta al provvedimento di confisca diretta o per equivalente, ai sensi dell’art. 12-bis, Dlgs. 10 marzo 2000, n. 74 (cfr., Cass., n. 864/2022), nonché sul carattere obbligatorio della confisca e sulla sua finalità sanzionatoria (cfr., Cass., 15779/2020).
Il che giustificherebbe la prevalenza su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento.
Da ultimo, rileva la Corte, anche Cass., n. 31921/2022 ha peraltro ribadito che, fino alla materiale distribuzione da parte del curatore, le somme di denaro costituenti l’attivo del fallimento non possono essere considerate come appartenenti ad un terzo estraneo alla commissione del reato, ma restano beni della società fallita, come tali suscettibili di sequestro (cfr., valorizzando anche le nuove disposizioni del codice della crisi di impresa e di insolvenza, Cass., n. 3575/2022; Cass., n. 5255/2023).
Le SSUU rilevano poi che l’opposto orientamento, secondo cui non può essere disposto il sequestro in presenza di una dichiarazione di fallimento, si fonda, invece, anzitutto, sull’assunto (opposto) che la dichiarazione di fallimento comporta il venir meno in capo al fallito del potere di disporre del proprio patrimonio, con attribuzione al curatore, terzo estraneo al reato, del compito di gestire tale patrimonio (cfr., Cass., n. 47299/2021); ciò anche sulla scorta della giurisprudenza civilistica che qualifica esplicitamente il curatore come “detentore dei beni del fallimento”, configurando in capo all’organo fallimentare una detenzione qualificata dal carattere pubblicistico della funzione svolta (cfr., Cass., n. 23645/2020).
Lo stesso orientamento ritiene del resto superabile l’argomento che fa leva sulla finalità sanzionatoria della confisca, correlato alla sua obbligatorietà, che giustificherebbe la natura recessiva degli interessi della massa fallimentare, considerando che affermare l’assoluta prevalenza della misura ablatoria dei beni rispetto al vincolo derivante dalla loro attrazione alla massa fallimentare produrrebbe l’effetto perverso di far ricadere la sanzione sui creditori del fallito, soggetti diversi rispetto all’autore dell’illecito.
La pretesa erariale tutelata dal sequestro finalizzato alla confisca, secondo tale impostazione, non sarebbe quindi ontologicamente dissimile da quella di tutti gli altri creditori che si siano insinuati nel fallimento, determinando una sorta di privilegium Fisci, con indebita attribuzione all’Erario di una posizione dominante rispetto a quella degli altri operatori economici.
Tanto premesso, nel dirimere il contrasto, le SSUU evidenziano che, di recente, il legislatore è intervenuto sulla questione, introducendo l’art. 317 del già menzionato Dlgs. n. 14 del 2019, in base al quale deve ora ritenersi espressamente affermata la prevalenza della misura cautelare sul vincolo derivante dalla procedura fallimentare.
E dunque, è possibile affermare che, dalla data del 15 luglio 2022 (data di entrata in vigore della disciplina dettata dagli artt. 317 ss. del c.c.i.), vige ormai una unitaria disciplina di carattere generale che regola i rapporti tra sequestro preventivo a fini di confisca e dichiarazione di liquidazione giudiziale, ovvero quella contenuta negli artt. 63 ss. Dlgs., n. 159 del 2011, anch’essi rimodulati, con inequivocabile prevalenza dello strumento penale.
Si recepisce così, anche per norma, la valenza primaria dell’interesse pubblico ad assicurare l’effettività della misura ablatoria anche nel caso del fallimento, escludendo che, nel caso di prestazioni connesse all’attività illecita o a quella di reimpiego dei suoi proventi, il sequestro possa essere recessivo rispetto all’interesse degli altri creditori.
Secondo la Suprema Corte, pertanto, pur essendo “opinabile” ricorrere alla nuova disciplina per inferirne criteri interpretativi con riferimento alle vicende insorte in precedenza, è chiara, a questo punto, la linea scelta dal Legislatore di allinearsi alla tesi della prevalenza della confisca sulle procedure concorsuali.
In ogni caso, la tesi della prevalenza del fallimento sulla confisca, secondo le SSUU, non sono accoglibili in ragione della natura obbligatoria della misura ablatoria, alla cui salvaguardia è appunto finalizzato il sequestro.
Anche a seguito della dichiarazione di fallimento, infatti, la titolarità dei beni resta in capo al fallito sino al momento della vendita fallimentare per i beni o del riparto dell’attivo per il denaro.
E, dunque, non si realizza quella condizione di “appartenenza a terzi” che inibisce l’adozione del provvedimento ablatorio. I beni del fallito, infatti, sebbene acquisiti alla procedura concorsuale, non possono qualificarsi come “beni appartenenti a persona estranea al reato”, divenendo il curatore (solo) mero gestore, detentore deli stessi beni.
In definitiva, secondo la Suprema Corte, il criterio risolutivo può essere individuato come segue: nel caso di confisca diretta o per equivalente il sequestro opera “sempre” (e dunque anche in caso di apertura delle procedure concorsuali, anteriore o successiva che sia al sequestro), laddove proprio la natura del profitto dei reati tributari dà luogo ad un interesse, sanzionato penalmente, che giustifica anche il sacrificio dei creditori “privati”, anche al fine di evitare la circolazione di beni provenienti da evasione.
Beni che, costituendo il profitto del reato, vanno sottratti alla liquidazione giudiziale, anche per evitare la (paradossale) conseguenza di rendere disponibile (e commerciabile mediante la vendita fallimentare) un bene costituente profitto di un illecito penale, sottraendolo alla conseguenza sanzionatoria obbligatoriamente prevista dalla legge.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Rapporti tra sequestro e fallimento