La Corte di Cassazione si è espressa sulla presunzione (condizionata) di onerosità dell’incarico di amministratore. Il caso in esame permette una riflessione sui precedenti giurisprudenziali sul tema e sulla gratuità dell’incarico
È di particolare interesse la pronuncia della Corte di Cassazione n.21929/2023 sulla presunzione (condizionata) di onerosità dell’incarico di amministratore, che ci consente di esaminare i precedenti giurisprudenziali sul tema.
Determinazione induttiva del reddito: il caso all’esame della Corte di Cassazione
Il caso sottoposto all’esame dei massimi giudici di legittimità e deciso con l’ordinanza n.21929 del 21 luglio 2023 trae origine dall’accertamento operato nei confronti di un contribuente, evasore totale, sia per l’anno oggetto del controllo sia per gli anni successivi, che legittimava l’Ufficio alla determinazione induttiva del reddito.
In particolare, per l’anno 2004 risultava che il contribuente deteneva una partecipazione del 15 per cento del capitale sociale di una SRL nonché socio unico, di altra SRL.
Non essendo credibile che si fosse dedicato a tale attività senza ritrarre alcun compenso, l’Agenzia riteneva legittimo quantomeno ricostruire in capo al contribuente una retribuzione pari a quella di un dipendente del settore del commercio, corrispondente a 19.595 euro
Compenso amministratore e conseguenze reddituali e fiscali: la posizione della Corte di Cassazione
Con riferimento alla configurabilità di un compenso in capo all’amministratore, la Corte osserva che la relativa previsione va provata, in quanto, secondo Cass. n. 2671/1998 e da ultimo Cass. n. 16530/2018:
“in materia di accertamento delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria non può pretendere, presumendone la onerosità, di assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società.”
Tuttavia, nella specie occorre tener presente come da un lato il contribuente abbia del tutto omesso la dichiarazione, e dall’altro la stessa società abbia fatto altrettanto, così legittimando il ricorso all’accertamento induttivo, a fronte del quale grava sul contribuente la prova circa la non sussistenza o la minor sussistenza del reddito così accertato, in quanto, secondo Cass. n.15167/2020:
“In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nell’ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 l’Ufficio può fare ricorso a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, comportanti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata induttivamente dall’Amministrazione.”
Per gli Ermellini, non ha quindi errato la CTR nel ritenere che:
“il relativo quadro indiziario (il cui apprezzamento in fatto non è sindacabile in questa sede) privasse di qualsiasi consistenza la pretesa e genericamente asserita gratuità della prestazione, resa poi ulteriormente inverosimile dal fatto che lo stesso contribuente non abbia affatto indicato fonti alternative di reddito.”
La presunzione di onerosità dell’incarico di amministratore: i precedenti giurisprudenziali
La presunzione di onerosità dell’incarico di amministratore è stata esaminata dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18643/2018.
Secondo gli Ermellini, l’amministrazione finanziaria non può assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società.
Nel caso in questione, che porta la Cassazione ad esaminare un avviso di accertamento emesso nel lontano 1981, per l’annualità d’imposta 1975, veniva contestato, fra l’altro, l’assenza di compensi per l’attività di amministratore di alcune società. In pratica, il maggior reddito da lavoro autonomo veniva rideterminato dall’Ufficio sulla base della presunzione secondo cui le varie cariche sociali ricoperte dal contribuente in seno a diverse società di capitali non potessero che essere a titolo oneroso.
Il principio affermato è quindi il seguente, secondo Cass. n. 2671/1998:
“in materia di accertamento delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria non può pretendere, presumendone la onerosità, di assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società.”
Per la Corte, Cass. n. 19714/2012:
“il diritto al compenso professionale dell’amministratore ha natura disponibile e può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare nella specie, di rinuncia.”
Detta sentenza, n.18643/2018, contrasta tuttavia con la pronuncia n. 1915 del 21 novembre 2007 (dep. il 29 gennaio 2008), dove la stessa Cassazione ha legittimato la presunzione secondo cui le attività di amministratore di una società e di condominii dia luogo a compenso; di conseguenza, non è incongrua od illogica la valutazione del giudice di merito che abbia negato valore di prova dell’autodichiarazione con cui l’amministratore di una società attesti di non aver ricevuto alcun compenso per la sua attività.
Nel caso di specie, i giudici hanno rigettato il ricorso presentato da un amministratore di una srl e di due condomini, confermando l’operato dell’Amministrazione finanziaria che gli aveva contestato la gratuità delle prestazioni offerte, ricorrendo ad una ricostruzione induttiva.
In pratica, secondo la Corte, l’Ufficio aveva fatto bene a ricorrere a tale metodologia accertativa dal momento che tali attività “normalmente” sono retribuite, richiamando al riguardo l’articolo 2389 c.c.
I Supremi giudici, inoltre, in ordine alla ritenuta fondatezza della pretesa, richiamano il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui, secondo Cass. n. 26081/2005, n. 23079/2005, n. 2700/1997, n. 3302/1996:
“ai fini della prova per presunzioni semplici non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, in quanto è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità.”
Per i giudici di Piazza Cavour:
“posto, in vero, il fatto noto e pacifico dell’espletamento delle citate attività, appare assolutamente ragionevole presumere che la stessa sia stata retribuita nei termini di cui all’accertamento, avuto riguardo, peraltro, al fatto che il contribuente non ha offerto prova della gratuità dei mandati, né di altri elementi idonei ad escludere la realizzazione, dall’attività svolta, di reddito fiscalmente rilevante.”
La Corte, ancora, in ordine alla doglianza di parte secondo cui i Giudici di appello non avrebbero riconosciuto la dovuta rilevanza probatoria alla dichiarazione attestante la gratuità dell’attività svolta ed al verbale dell’assemblea, rilevano che “le doglianze esplicitano una mera affermazione di dissenso rispetto alla soluzione cui sono giunti i Giudici di merito”, ed esse risultano formulate, per un verso:
“in violazione del principio di autosufficienza (Cass. n. 24461/2005; n. 17427/2003; n. 849/2002; n. 2613/2001), perché non vengono trascritte le risultanze degli atti ritenute rilevanti ai fini decisionali, ed anche del condiviso orientamento giurisprudenziale, secondo cui la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione, se non sotto il profilo della incongruità della motivazione per la presenza di vizi logici e giuridici (Cass. n. 23286/2005; n. 12014/2004; n. 322/2003).”
Non appare:
“di certo, incongruo ed illogico ritenere che non possa riconoscersi, autonomamente, dignità di prova alla autodichiarazione, con la quale un amministratore di società, attesti che dalle scritture contabili e dagli atti societari non risulta che gli siano stati erogati corrispettivi, in quanto non supportata da altri elementi oggettivi.”
Una attenta riflessione sulle pronunce di legittimità e dei principi in materia di prova ci porta a ritenere che, in generale, l’Ufficio possa far riferimento alla gratuità della prestazione per fondare la propria pretesa impositiva, qualora la stessa non sia sostenuta da giustificazioni “credibili” da parte del contribuente, sul quale incombe l’onere di spiegare il perché abbia posto in essere una condotta in contrasto con la naturale onerosità della prestazione professionale (id quod plerumque accidit).
Sulla questione annotiamo la sentenza n. 15382, depositata il 21 giugno 2017, della Corte di Cassazione, secondo cui il diritto al compenso dell’Amministratore è un diritto disponibile per cui lo Statuto della società può legarlo al conseguimento di utili e finanche prevederne la gratuità dell’incarico.
La vicenda investiva il contemporaneo ruolo di amministratore unico e di Direttore amministrativo svolto per la medesima società.
Per la Corte (Cass. n. 243/1976):
“l’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico affidatogli. Tale diritto, peraltro, è disponibile, e può anche essere derogato da una clausola dello statuto della società, che condizioni lo stesso al conseguimento di utili, ovvero sancisca la gratuità dell’incarico.”
Di conseguenza (Cass. n. 2769/2014):
“formando il compenso ex art. 2389 c.c. oggetto di un diritto avente natura disponibile, resta indifferente la circostanza che l’amministratore non rivesta la qualità di socio. Non potrebbe, in ogni caso, riconoscersi all’amministratore un diritto ex lege al compenso, come sembrerebbe indicare il ricorrente nello sviluppo del motivo in esame, atteso che l’amministratore, che è organo al quale sono affidati poteri di gestione della società, è legato a questa da un rapporto di tipo societario che si caratterizza essenzialmente per l’immedesimazione organica, così da escludere la sussistenza (anche) di un rapporto contrattuale: rapporto che, ove per ipotesi ricostruibile come di prestazione d’opera in regime di c.d. parasubordinazione ex art. 409 n. 3 c.p.c. (contra peraltro la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 1545 del 2017), non darebbe comunque luogo all’applicazione dell’art. 36 Cost., relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, la cui portata applicativa è limitata al lavoro subordinato; e che, ove ricostruibile, ancora per ipotesi, come di lavoro professionale autonomo, non attribuirebbe, anche in questo caso, un diritto al compenso, l’onerosità non costituendo requisito indispensabile dell’attività prestata in tale forma, rispetto alla quale, per comune opinione, è perfettamente configurabile la gratuità.”
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: La presunzione di onerosità dell’incarico di amministratore