Nessuna plusvalenza sulla cessione nei 5 anni della dimora abituale ad “uso ufficio”

Emiliano Marvulli - Imposte

La plusvalenza sulla rivendita, entro 5 anni dall'acquisto, di un immobile ad uso ufficio ma adibito ad abitazione principale non è tassabile. Lo ha precisato la Corte di Cassazione

Nessuna plusvalenza sulla cessione nei 5 anni della dimora abituale ad “uso ufficio”

Se il proprietario cede, entro il quinquennio dall’acquisto, un immobile classificato ad uso ufficio ma oggettivamente adibito ad abitazione principale sua e della propria famiglia, l’eventuale plusvalenza conseguita non è tassabile, dovendosi escludere l’intento speculativo dell’operazione.

Grava pertanto sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari, attraverso elementi di natura oggettiva quali, ad esempio certificati di residenza, copie delle fatture relative alla fornitura di gas, energia elettrica (per usi domestici) e servizio telefonico, bollettini di pagamento del canone RAI, della tassa rifiuti e delle quote condominiali.

Questo l’importante principio espresso dalla Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 17528 del 25 giugno 2024.

Nessuna plusvalenza sulla cessione nei 5 anni della dimora abituale ad “uso ufficio”

La vicenda processuale tratta il ricorso proposto da due contribuenti avverso due avvisi di accertamento, riguardanti il presunto maggior reddito che sarebbe derivato dalla plusvalenza realizzata a seguito di una (ri)vendita infraquinquennale di un immobile in comproprietà, iscritto in catasto in categoria A/10.

L’adita CTR accoglieva parzialmente il ricorso, ritenendo comunque legittima la plusvalenza.

I contribuenti hanno proposto appello, eccependo la nullità della notifica degli avvisi di accertamento per l’insussistenza di una plusvalenza tassabile dal momento che, indipendentemente dalla categoria catastale A/10, l’immobile era stato adibito ad abitazione principale della famiglia e la sua vendita non era finalizzata al perseguimento di un intento speculativo, ma era stata resa necessaria, invece, dalla situazione di crisi familiare sfociata nella separazione personale tra i coniugi.

La CTR, accoglieva il motivo di ricorso relativo all’insussistenza di una plusvalenza tassabile, annullando gli atti impositivi originariamente impugnati e osservando che la disposizione di cui all’articolo 67, comma 1, del DPR n. 917 del 1986 (TUIR), nell’escludere dalle plusvalenze tassabili le somme ottenute dalla vendita infraquinquennale di immobili adibiti ad abitazione principale, non contiene alcun riferimento alla loro categoria catastale.

A riguardo, l’inclusione di un immobile in una categoria che normalmente identifica un uso diverso da quello abitativo, come appunto la categoria A/10, che identifica la destinazione ad uso ufficio o studio privato, non preclude la possibilità di provare, da parte del contribuente, che l’immobile stesso fosse stato effettivamente adibito ad abitazione principale e, come tale, sottratto per legge all’imposizione fiscale sulla plusvalenza derivante dalla vendita prima del decorso di cinque anni dall’acquisto.

A parere dei giudici tale prova era stata fornita con riguardo al periodo intercorrente tra l’acquisto (avvenuto in data 13 febbraio 2006) e la successiva cessione dell’immobile (avvenuta in data 21 settembre 2007), attraverso la produzione dei certificati di residenza nell’immobile poi ceduto, delle copie delle fatture relative alla fornitura di gas, energia elettrica (per usi domestici) e servizio telefonico, delle copie dei bollettini di pagamento del canone RAI, della tassa rifiuti e delle quote condominiali.

Tale documentazione veniva considerata idonea a superare la presunzione di non utilizzo a fini abitativi derivante dall’assegnazione a tale unità immobiliare della categoria catastale prevista per gli uffici e gli studi privati.

Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha lamentato violazione e/o la falsa applicazione dell’articolo 67, comma 1, del TUIR, in quanto non potrebbe essere considerata “abitazione principale”, sottratta al regime di tassazione delle plusvalenze per le vendite infraquinquennali, l’unità immobiliare che sia stata destinata ab origine ad usi diversi da quello abitativo, ottenendo per tale motivo una classificazione catastale differente rispetto a quelle che normalmente identificano gli immobili adibiti ad abitazione.

Il regime fiscale delle plusvalenze da cessione di immobili

La Corte di Cassazione, nel ritenere infondata la tesi dell’Amministrazione finanziaria, si è soffermata sul regime fiscale delle plusvalenze da cessione di immobili, rientranti nell’art. 67, comma 1, lett. b) del TUIR, che ne prevede la tassazione ove:

“realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione e le unità immobiliari urbane che per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari.”

La ratio di tassare una plusvalenza prodotta tramite un trasferimento infraquinquennale consiste nell’esigenza di tassare una ricchezza prodotta attraverso operazioni di cui si presume un intento speculativo: in altre parole sono tassabili solo ed esclusivamente le plusvalenze derivanti da operazioni immobiliari potenzialmente speculative e tali sono presuntivamente considerate dal legislatore le rivendite di immobili operate nel quinquennio dall’acquisto, salvo che, appunto, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione, tali immobili non siano stati adibiti ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari.

A parere dell’Agenzia delle Entrate, la cessione infraquinquennale dell’immobile non accatastato ad uso abitativo, se produttiva di una plusvalenza, dovrebbe sempre essere assoggettata a tassazione, anche se il bene sia stato di fatto adibito ad abitazione principale per gran parte del periodo intercorso fra acquisto e cessione.

A sostegno di tale assunto, viene richiamata la risoluzione n. 105 del 21 maggio 2007 della stessa Agenzia delle Entrate, secondo cui, ai fini della tassazione delle plusvalenze di cui si sta trattando, un immobile rileverebbe come “abitazione principale” solo se (e a partire dal momento in cui) sia stato accatastato come tale.

Tale ricostruzione, tuttavia, non convince la Corte, che individua il punto centrale della questione nella definizione del concetto di “abitazione principale utilizzato dal citato art. 67, comma 1, lett. b).

La giurisprudenza di legittimità (così Cassazione civile sez. VI, n. 18963/2019) ha affermato che, in relazione all’applicazione dell’art. 67, comma 1, lett. b), TUIR (e del successivo art. 68, che detta i criteri per il calcolo della plusvalenza), gli elementi che determinano l’esclusione della fattispecie normativa sono, da un lato, il non superamento di un certo intervallo temporale fra acquisto e vendita - requisito da intendersi nel senso che l’immobile de quo deve essere stato adibito ad abitazione principale del cedente “per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la cessione”, dall’altro, la destinazione all’uso personale dell’acquirente e dei suoi familiari, secondo criteri oggettivi, non legati alla classificazione catastale.

Occorre, in altre parole, che tale destinazione sia effettiva e non meramente intenzionale, dovendo emergere da una serie di atti aventi estrinsecazione esterna idonei a dimostrare la concreta realizzazione di tale adibizione.

D’altra parte la nozione di abitazione principale deve essere ancorata all’accertamento di una situazione di fatto di oggettiva destinazione dell’immobile a dimora abituale.

Poiché la finalità perseguita dal legislatore è quella anti-speculativa, come correttamente riconosciuto anche dall’Agenzia delle Entrate, non appare coerente con la ratio legis far dipendere l’esclusione dall’ambito di operatività della tassazione dal mero dato formale della “classificazione catastale” dell’immobile oggetto della cessione infraquinquennale, senza consentire al contribuente di provare l’effettiva adibizione dell’immobile ad abitazione principale, nel senso sopra indicato.

Grava pertanto sul contribuente l’onere di provare l’utilizzo dell’unità immobiliare quale abitazione propria o di propri familiari, attraverso elementi di natura oggettiva.

In quest’ottica, la diversa classificazione catastale dell’immobile potrà solo costituire elemento indiziario da cui presumere ordinariamente l’inesistenza dei requisiti normativi che legittimano l’esclusione dalla tassazione, ma non potrà impedire al contribuente di dimostrare di aver comunque utilizzato quale abitazione principale un immobile classificabile come tale, per la maggior parte del periodo intercorrente tra l’acquisto e la successiva cessione.

Sulla base di tali argomentazioni il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria è stato rigettato, con conferma della nullità degli avvisi di accertamento originariamente impugnati dai contribuenti.

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