La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata su un nuovo caso relativo alla Lista Pessina. Dalla vicenda alle ultime novità, l'analisi della sentenza.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 12123/2022, si è pronunciata su un nuovo caso relativo alla famosa “Lista Pessina”.
Nella specie, la vicenda nasceva dalle risultanze del processo verbale di constatazione, redatto dalla Guardia di Finanza, dal quale emergeva il possesso da parte del contribuente di capitali all’estero e, quindi, di maggiori redditi imponibili in Italia rispetto a quelli dichiarati per gli anni di imposta 2006, 2007 e 2008.
Veniva appurata, altresì, l’omessa compilazione del quadro RW, con violazione della normativa sul monitoraggio fiscale.
La vicenda della Lista Pessina
L’attività della Guardia di Finanza era stata intrapresa attraverso la notifica di un questionario, ai sensi dell’articolo 32, primo comma, n. 3, Dpr. n. 600 del 1973, finalizzato al riscontro del corretto assolvimento degli obblighi di cui al Dl. n. 167 del 1990 ed era stata chiesto l’invio di eventuale documentazione inerente il conseguimento, al di fuori del territorio dello Stato, di redditi di qualsivoglia natura di detenzione di partecipazioni societarie e/o cointeressenza in società o altri enti residenti al di fuori dello Stato, o comunque di qualsiasi altro rapporto economico intrattenuto dal contribuente con soggetti residenti al di fuori dello Stato italiano per gli esercizi dal 2003 al 2008.
La vicenda s’inquadrava, come detto, in quella, più ampia, della cd. lista Pessina (lista che prendeva il nome dall’avvocato e notaio svizzero tratto in arresto, il 1° febbraio 2009 all’aeroporto di Malpensa, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare per fatti di riciclaggio, con sequestro di un personal computer con archiviati centinaia di nominativi relativi a clientela assistita dal professionista o dal suo studio), tramite la quale l’Agenzia delle Entrate aveva appurato che, per effetto di rapporti di mandato e di consulenza con i propri clienti, l’avvocato Pessina aveva promosso, anche tramite una società svizzera ad egli riconducibile, la costituzione di trust e fondazioni nel Lichtenstein o in altri Paesi stranieri, ovvero l’interposizione di società veicolo, con l’intento di consentire la permanenza all’estero di capitali italiani scudati, promuovendo, quindi, finanziamenti e ristrutturazioni societarie per il rientro in Italia di capitali detenuti all’estero.
In tale contesto era stato appurato che il contribuente in esame, formalmente esercente solo fino al 2004 attività di consulenza legale (anno in cui aveva chiuso la partita Iva), era destinatario di trasferimenti di danaro, avvenuti sotto forma di finanziamento soci, attraverso società offshore, veicolo e trust a lui riconducibili “pro quota” unitamente al coniuge, che, a sua volta, faceva parte del medesimo gruppo di professionisti, che, con il Pessina trasferivano danaro di clienti italiani all’estero per sottrarli alla tassazione del Fisco italiano, ricavando da tali operazioni compensi che facevano poi ritornare in Italia attraverso il predetto meccanismo.
Secondo l’ipotesi dei verificatori il contribuente aveva svolto attività di consulenza anche successivamente al 2004, motivo per cui era stata riaperta la partita IVA e recuperati a tassazione gli importi trasferiti a suo vantaggio, imputati a lui per il 50 per cento e per il restante 50 per cento in capo al coniuge.
Il contribuente impugnava gli avvisi chiedendone l’annullamento.
La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso, ritenendo gli atti impositivi correttamente motivati e le sanzioni correttamente erogate, con provvedimenti sorretti da idonea motivazione.
Il contribuente proponeva appello, che veniva rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale valorizzava il forte valore indiziario degli elementi posti a base della pretesa impositiva.
Il contribuente proponeva infine ricorso in cassazione, rilevando, per quanto di interesse, che non vi era, a suo avviso, alcun elemento per la riconducibilità a lui delle operazioni di cui alla lista Pessina.
Il ricorrente deduceva poi la violazione della normativa in materia di accertamento dei redditi (artt. 39, primo comma, lett. d), Dpr. n. 600 del 1973, 54 Dpr. n. 633 del 1972, 32 del Dpr. n. 600 del 1973), nonché dei principi in materia di onere probatorio di cui all’art. 2697 cod. civ., rimarcando il fatto che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di appello, le risultanze documentali non deponevano nel senso di attribuire al contribuente l’attività di consulenza in favore di soggetti terzi, ma, piuttosto, nel senso di attribuire l’attività fonte del reddito professionale unicamente al coniuge.
Secondo la Suprema Corte le censure erano infondate.
Evidenziano i giudici di legittimità che i motivi di impugnazione erano innanzitutto inammissibili, tendendo in realtà ad inserire nel giudizio di legittimità una rivalutazione di circostanze di fatto, poste a base della decisione impugnata.
La Commissione Tributaria Regionale, rileva la Cassazione, aveva in particolare confermato l’atto irrogativo di sanzioni, valorizzando gli elementi indiziari posti a base degli avvisi di accertamento prodromici, e riconoscendo ad essi forte valenza indiziaria, richiamando espressamente anche i principi già espressi dalla stessa Corte con la sentenza n. 17183 del 2015.
La posizone della Corte di Cassazione sul nuovo caso della Lista Pessina
Dopo aver indicato i principi di diritto applicati per l’operatività delle presunzioni per il monitoraggio fiscale ed aver superato l’eccezione riguardante l’utilizzabilità dei documenti prodotti in copia e rinvenuti nel pc del Pessina - sul rilievo che la loro conformità all’originale era stata appurata dalla perizia tecnica e dalle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio innanzi alla Procura della Repubblica – i giudici di secondo grado avevano dunque concluso circa la riferibilità ai coniugi, beneficiari finali nella quota del 50 per cento, di compensi per l’attività di consulenza svolta a favore di clienti italiani al fine del trasferimento di capitali all’estero.
Il giudice di merito, evidenzia la Cassazione, non è del resto tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi di fatto portati al suo esame, ma può senz’altro limitarsi a porre in luce anche solo quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente.
Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera dunque interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità.
I motivi di ricorso, infine, secondo la Corte, non offrivano elementi rilevanti per superare l’orientamento di legittimità in tema di monitoraggio fiscale e prova presuntiva, laddove la questione riguardante il limite di operatività delle presunzioni per il monitoraggio fiscale, da tempo dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza, ha trovato oramai composizione nell’indirizzo della Cassazione, che, sulla scia di quanto già affermato in merito alla lista “Falciani” (v. le ordinanze “gemelle” del 28/04/2015 nn. 8605 e 86066, nonché l’ordinanza n. 9670 del 13/05/2015 e le sentenze del 19/08/2015 nn. 16950 e 16951), con la sentenza n. 17183 del 26/08/2015 (richiamata anche dalla CTR), ha ammesso l’utilizzabilità delle informazioni contenute nella lista “Pessina”.
Dopo le cd. ordinanze gemelle sulla lista Falciani, ricorda la Corte, la giurisprudenza ha infatti approfondito, rivisitato e calibrato la materia in base alla peculiarità delle tre liste (Pessina, Falciani e Vaduz), formulando principi di diritto di carattere generale estensibili a ciascuna di esse (cfr., ex multis, 19/12/2019, n. 33893; Cass., 05/12/2019, n. 31779).
E, per quel che qui interessava (lista Pessina), con la sentenza n. 17183 del 2015, l’efficacia probatoria degli elementi ritrovati dall’Ufficio sul pc sequestrato all’avv.to Pessina è stata ricavata dalla disciplina in tema di presunzioni, evidenziandosi come, in tesi generale, il diritto interno, sia in materia di imposte dirette che di IVA, consente l’ingresso nell’accertamento fiscale, prima, e nel processo tributario, poi, di elementi comunque acquisiti, e, dunque, anche di prove atipiche, ovvero di dati acquisiti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni propri della prova per presunzioni.
Tali elementi, evidenzia la Cassazione, non sono infatti predeterminati né predeterminabili dalla legge, poiché qualunque cosa, documento o dichiarazione può costituire la base per una inferenza presuntiva, idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti della causa.
In conclusione, si può ravvisare nella categoria delle presunzioni semplici (salvo i limiti di cui all’art. 2729 c.c.) la via attraverso la quale le prove atipiche posso entrare nel processo, e i cui requisiti caratteristici, se non possono essere stabiliti a priori, essendo ad essi immanenti la valutazione del caso concreto, si possono individuare nella gravità, precisione e concordanza; requisiti che, se sussistenti, attribuiscono all’indizio pieno valore probatorio.
Nella specie, in conclusione, secondo la Suprema Corte, la valutazione dell’intero compendio logico e circostanziale offerto dall’Agenzia delle Entrate ed il ragionamento inferenziale che ne era conseguito, consentiva quindi, senz’altro, di affermare che i nomi dei soggetti sottoposti ad accertamento non fossero finiti “accidentalmente” nella lista Pessina, avendo il materiale indiziario rivenuto col sequestro del pc del Pessina valore indiziario tale da configurare l’ipotesi elusiva del trasferimento all’estero di capitali italiani scudati, salvo l’eventualità di elementi di controprova che sconfessassero quegli stessi elementi; e che però, nella specie, non erano stati forniti.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Un nuovo caso relativo alla Lista Pessina