Esternalizzazione e delocalizzazione

Rino Cimella - Controllo di gestione

L'esternalizzazione (o outsourcing) del processo produttivo può costituire uno dei fattori chiave per il successo dell'azienda: in cosa consiste, come si valuta la sua convenienza economica e, soprattutto, come si governa

Esternalizzazione e delocalizzazione

Iniziamo col dire, innanzitutto, che nel linguaggio comune di frequente vengono utilizzati come sinonimi, erroneamente, i termini esternalizzazione (outsourcing) e delocalizzazione (off-shoring).

In realtà, i due fenomeni sono completamente differenti.

Il primo prevede il trasferimento di una o più fasi della gestione aziendale ad altre imprese, appunto “esterne” al contesto di riferimento.

Il secondo costituisce una scelta precisa da parte dell’azienda di trasferire alcune funzioni della propria organizzazione (come ad esempio la produzione) o tutti i comparti aziendali, fuori dai confini nazionali, ma mantenendo all’interno e sotto il proprio controllo tali attività.

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Le figure dell’outsourcing

Prima di comprendere pro e contro del processo di esternalizzazione, è importante capire di che cosa si tratta nel concreto.

Come anticipato, l’outsourcing o esternalizzazione consiste

“nell’affidare a terze parti alcuni processi che sono già svolti, o potrebbero essere realizzati, all’interno della propria attività”

È dunque un accordo tra l’outsourcee (impresa che affida all’esterno le fasi) e l’outsourcer (impresa esterna che assume l’incarico).

Non esiste un contratto tipico di esternalizzazione

In Italia non esiste la tipizzazione del contratto di outsourcing.

A livello giurisprudenziale, la Cassazione si è espressa nel 2006 (sentenza n. 21287 del 2 ottobre) sul tema.

In particolare, si è focalizzata sul rimarcare la distinzione tra la cessione di un ramo d’azienda ed esternalizzazione.

In quest’ultima fattispecie, infatti, come già si è scritto in premessa, non avviene alcun trasferimento di proprietà di una parte o dell’intera azienda, ma “solamente” della realizzazione di alcune fasi gestionali. Secondo la sentenza, con l’appalto di opere e servizi o manutenzione, inteso in tale accezione alla stregua dell’outsourcing:

una parte assume, con proprio personale e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro

Non solo, l’outsourcee

non dismette un segmento produttivo ma si avvale semplicemente dei prodotti e dei servizi fornitigli da altra impresa.

Quindi, tutti i servizi e i prodotti utilizzati sono fondamentalmente prodotti dell’appaltatrice ed è la volontà imprenditoriale a fare la differenza tra le descritte ipotesi

Proprio quest’ultimo è il passaggio-chiave per evidenziare la distinzione tra le varie possibilità.

Pertanto, l’esternalizzazione rientra tra i contratti “atipici”, utilizzando come riferimento i contratti di appalto, di opera o di subfornitura, che sono quelli che maggiormente si avvicinano all’operazione in questione.

Le tipologie di outsourcing

Chiariti questi aspetti, è lecito domandarsi: ma cosa si può esternalizzare?

Praticamente qualsiasi aspetto della gestione.

Non ci sono, infatti, limiti particolari all’attività.

Si possono però classificare in alcune categorie, come ad esempio:

  • BPO (Business Process Outsourcing): si ha quando un’impresa esternalizza degli specifici processi aziendali. Nelle grandi aziende, si ricorre a questo strumento quando, a mero titolo esemplificativo, si affidano a soggetti esterni servizi di assistenza alla clientela o ufficio reclami. Nelle piccole aziende, è invece più frequente utilizzarlo per contabilità o per la gestione delle risorse umane;
  • Knowledge outsourcing: in questa modalità, rientra tipicamente la fattispecie di affidarsi ad un consulente esterno in materia tributaria e/o legale;
  • Out-tasking outsourcing: utilizzato quando si esternalizzano attività che richiedono competenze tecniche specifiche. Idealmente, lo sviluppo di nuovi prodotti tecnologici o di parti del bene finito può essere conferito a soggetti esterni.

I vantaggi e i rischi dell’outsourcing

Ma per quale ragione un’azienda dovrebbe esternalizzare alcune fasi del processo produttivo?

Detto che affinché si configuri un corretto procedimento è necessario un clima di reciproca fiducia, ci sono notevoli vantaggi ove l’outsourcing dovesse essere funzionale.

A titolo esemplificativo:

  • Abbattimento dei costi. Affidando alcune competenze all’esterno, è possibile risparmiare sulle spese necessarie per sostenere in house le attività in questione. Infatti, generalmente, il costo dell’affidamento è inferiore rispetto alla gestione integrale all’interno. Naturalmente, se questa condizione non dovesse verificarsi, si tratterebbe di una scelta anti-economica. Ma fino a un certo punto.
  • Specializzazione sul core business. Infatti, oltre al risparmio dei costi, il grande vantaggio è che si liberano tempi e risorse per poter concentrarsi sulle procedure ritenute centrali nell’attività d’impresa o che sono realizzate meglio e con minor sacrificio. Pertanto, la riduzione dei costi, soprattutto quelli fissi, deve essere coordinata con i potenziali ricavi aggiuntivi generati dal minor impatto di alcune fasi gestionali.
  • Miglioramento della qualità. Alla base, la scelta dell’outsourcer deve essere ponderata e azzeccata. In caso positivo, l’attività svolta dall’impresa esterna è generalmente molto più accurata e precisa, in quanto l’attività che svolge, presumibilmente, rappresenterà il suo core business. Dovrebbe quindi garantire dei risultati migliori rispetto ad una produzione interna.

D’altra parte, è importante anche misurare i rischi derivanti da una tale scelta.

Va infatti sottolineato come il noto procedimento “Make or Buy?” preveda delle valutazioni molto profonde sulla scelta da compiere.

In primis, sul ricorso all’esternalizzazione o meno.

Secondariamente, sulla decisione del fornitore esterno in caso affermativo. E questo è un momento chiave in quanto sbagliare rischia di mandare a monte una strategia aziendale potenzialmente vantaggiosa.

Ad ogni modo, anche riuscendo ad individuare correttamente l’impresa esterna a cui affidare le attività, si corrono una serie di rischi:

  • Minor controllo. Decidendo di esternalizzare, è inevitabile che non si abbia più il pieno controllo delle attività. Certo, un buon supporto legale garantirà massima copertura contrattuale da eventuali danni o ritardi nelle consegne, ma è chiaro che ci si affida totalmente ad aziende che non fanno parte della propria struttura organizzativa. Ecco perché è fondamentale il rapporto fiduciario;
  • Segreti aziendali. Anche in questo caso, appare evidente che ci siano notevoli tutele contrattuali, ma è altrettanto palese che, per affidare delle lavorazioni a soggetti esterni, si debbano condividere dati e informazioni sensibili, che riguardano il bene o servizio prodotto;
  • Rischio di dipendenza. Bisogna fare molta attenzione nella selezione in quanto l’eccessivo grado di dipendenza dal fornitore può ribaltare la forza contrattuale delle parti in causa. Infatti, se l’outsourcer diventasse indispensabile nello svolgimento dell’attività, questo potrebbe causare delle difficoltà.

La delocalizzazione

Come anticipato, l’off-shoring, termine anglosassone che individua il processo di delocalizzazione, è, invece, un procedimento che non ha nulla a che vedere con l’esternalizzazione.

Si tratta in questo caso di:

un vero e proprio trasferimento produttivo degli stabilimenti produttivi dell’impresa.

Dunque, una parte o addirittura l’intera struttura interna si sposta da un’area geografica di origine ad una di destinazione

I motivi e le implicazioni della delocalizzazione

Perché delocalizzare? Come può essere intuitivo, per una questione di contenimento dei costi, di varia natura.

Il classico caso è quello legato al costo del lavoro più basso in alcuni Paesi rispetto all’Italia.

Più in generale, però, ci sono delle aree in cui sono i generici fattori produttivi ad avere un peso economico più basso.

Non solo, però: anche agevolazioni fiscali ideate appositamente da alcune realtà geografiche per attrarre investitori esteri, l’esenzione o la riduzione dal pagamento dell’IVA o delle imposte sul reddito societario o ancora un minor carico burocratico possono favorire la decisione.

Delocalizzare ha un effetto generalmente negativo sul Paese di partenza.

Questo per due ragioni principali:

  • in primis, il cambio di “residenza fiscale” sottrae un’azienda al pagamento delle tasse e imposte, con le relative ricadute sulle casse dello Stato;
  • inoltre, andare all’estero e svolgere attività d’impresa in un altro Paese implica conseguenze notevoli per i lavoratori dipendenti dell’azienda in questione. Spostarsi in un altro Paese provoca generalmente degli scossoni occupazionali: è infatti implicito che la delocalizzazione è un processo intrapreso da una realtà preesistente e, generalmente, di ampie dimensioni. Come accade spesso, i lavoratori dipendenti non sono sempre disponibili ad un trasferimento.

La procedura di delocalizzazione per le grandi aziende

L’art. 1 c. 224-238 della legge n. 234/2021 ha previsto a tal proposito alcune tutele per salvaguardare il tessuto occupazionale e produttivo in caso di chiusura di uno stabilimento da parte di un’azienda che impiega mediamente almeno 250 dipendenti.

Dalle misure sono esclusi i datori di lavoro che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa (c. 226).

L’impresa è tenuta a dare comunicazione per iscritto dell’intenzione di procedere alla chiusura alle rappresentanze sindacali aziendali o alla rappresentanza sindacale unitaria nonché alle sedi territoriali delle associazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, contestualmente, alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico e all’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL).

Questa va effettuata almeno 90 giorni prima dell’avvio della procedura, indicando le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative della chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura.

Entro 60 giorni, invece, elabora un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura, inviandolo agli stessi destinatari della precedente comunicazione. Tale piano deve essere discusso con le rappresentanze sindacali e, in caso di accordo, l’azienda si impegna ad attuare il piano secondo tempi e modalità previste all’interno del documento. In mancanza, sono previsti ulteriori accorgimenti per i lavoratori.

La rilocalizzazione

In ultima analisi, è giusto citare anche il fenomeno inverso, quello del reshoring, termine anglosassone utilizzato per identificare il processo di rilocalizzazione.

Se soprattutto nei due decenni precedenti i motivi economici e fiscali hanno spinto tante aziende a delocalizzare, negli ultimi anni è in crescita la tendenza contraria.

Molte imprese rientrano nei loro Paesi di origine.

Semplificando, i motivi principali per rientrare in Italia sono da ritrovare nei seguenti:

  • Made in Italy. Produrre in altri Stati non sempre garantisce medesima qualità. Ecco perché, in un mondo commerciale sempre più comunicativo, la certificazione dei prodotti realizzati in Italia, soprattutto per alcune categorie, è più che mai fondamentale;
  • Aumento dei costi della manodopera. Anche in altri Paesi, le retribuzioni medie stanno crescendo e questo comporta un minor risparmio;
  • Costi di trasporto. Spostarsi in altri luoghi non modifica necessariamente gli sbocchi di mercato. Anzi, nella maggior parte dei casi le imprese che producono all’estero mantengono una grossa fetta di clientela nel mercato originario. Il risparmio sul lavoro e nello specifico sulla manodopera può non compensare l’aumento consistente dei costi logistici.

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