Obiettiva incoerenza della normativa e della prassi nazionale con le direttive UE e difficoltà interpretative: focus sul trattamento ai fini IVA della cessione di quote sociali
L’analisi di caso di studio relativo ad una cessione di quote di una partecipazione societaria, frazionata tra diversi acquirenti uno dei quali comunitario, detenute in regime di impresa è stato lo spunto per riassumere la normativa alla base del trattamento IVA.
Spesso si danno per scontate le regole applicabili a questi casi particolari: molti operatori, ritenendola una operazione “tracciata”, pensano si debba concludere con la mera registrazione in prima nota delle movimentazioni finanziare e la rilevazione delle eventuali plusvalenze o minusvalenze.
Ma in effetti non è così: vediamo il perché.
Il trattamento ai fini IVA della cessione di quote sociali: l’analisi della normativa
Dalla consultazione dell’articolo 10 del Dpr 633/1972 si evince che l’operazione è da considerarsi esente da IVA.
“Le operazioni relative ad azioni, obbligazioni o altri titoli non rappresentativi di merci e a quote sociali” rientrano nella lista di operazioni esenti dall’imposta.
La fattura dovrà pertanto essere emessa in virtù di detta disposizione ma è anche vero che non sempre è così.
Per alcuni, in effetti, della vendita di azioni e/o quote societarie, non oggetto dell’attività propria del soggetto cedente, non deve essere certificato il corrispettivo né obbligatoriamente emessa fattura, salvo che questa non sia richiesta dal cliente in un momento non successivo a quello di effettuazione dell’operazione.
Tesi del tutto opinabile, ad avviso di chi scrive, atteso che l’articolo 22 del Dpr 633/72 “Commercio al minuto ed attività assimilate”, come si evince dal suo titolo, fissa le regole per le attività indicate e per quelle assimilate e non per la generalità dei contribuenti.
Pe completezza di informazione, la tesi dell’esonero dall’obbligo di fatturazione deriverebbe dalla interpretazione in combinato disposto del citato articolo 22 al suo comma 1, numero 6, qui riportato:
“1) L’emissione della fattura non è obbligatoria, se non è richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione dell’operazione:
… 6) per le operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 5) e ai numeri 7), 8), 9), 16) e 22) dell’art. 10”
Da leggersi insieme all’articolo 2, comma 1, lettera n) del Dpr 696/1996 che dispone:
“Articolo 2 - Operazioni non soggette all’obbligo di certificazione.
1. Non sono soggette all’obbligo di certificazione di cui all’articolo 1 le seguenti operazioni:
… n) le cessioni e le prestazioni esenti di cui all’articolo 22, primo comma, punto 6, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633;”
Laddove si voglia propendere per questa tesi va detto anche che, in merito alla trasmissione telematica di tale corrispettivo, anche in questo caso non vi sarebbe alcun obbligo per effetto dell’articolo 1 del Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 10 maggio 2019 che indica le “Operazioni esonerate dall’obbligo di memorizzazione elettronica e di trasmissione telematica dei dati dei corrispettivi giornalieri”:
“ In fase di prima applicazione, l’obbligo di memorizzazione elettronica e trasmissione telematica dei dati dei corrispettivi giornalieri di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 127 non si applica:
- a) alle operazioni non soggette all’obbligo di certificazione dei corrispettivi, ai sensi dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1996, n. 696, e successive modificazioni e integrazioni, e dei decreti del Ministro dell’economia e delle finanze 13 febbraio 2015 e 27 ottobre 2015; (...)
2. Le operazioni di cui al comma 1 continuano ad essere annotate nel registro dei corrispettivi di cui all’art. 24 del l’art. 24 del DpR n. 633 del 1972. (...)
3. I soggetti che effettuano le operazioni di cui al comma 1 possono comunque scegliere di memorizzare elettronicamente e trasmettere telematicamente i dati dei corrispettivi giornalieri di tali operazioni.”
La conclusione sintetica di chi sostiene questa tesi è che in assenza di fatturazione, che potrà comunque essere emessa ancorché non per obbligo, l’operazione in oggetto dovrà essere solamente annotata sul registro dei corrispettivi in regime di esenzione IVA.
Va comunque precisato che, in ogni caso, laddove la cessione esuli dall’oggetto tipico dell’attività svolta, come si evince dalla lettura dell’articolo 19 bis del Dpr 633/1972 che ha per oggetto la determinazione della percentuale di detrazione dell’IVA sugli acquisti, questa non comporta adempimenti ai fini del calcolo del pro rata:
“Per il calcolo della percentuale di detrazione di cui al comma 1 non si tiene conto delle cessioni di beni ammortizzabili, dei passaggi di cui all’articolo 36, ultimo comma, e delle operazioni di cui all’articolo 2, terzo comma, lettere a), b), d) e f), delle operazioni esenti di cui all’articolo 10, primo comma, numero 27-quinquies), e, quando non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo o siano accessorie alle operazioni imponibili, delle altre operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 9) del predetto articolo 10, ferma restando la indetraibilità dell’imposta relativa ai beni e servizi utilizzati esclusivamente per effettuare queste ultime operazioni”.
L’emissione della fattura invero non è sempre obbligatoria.
Il trattamento ai fini IVA della cessione di quote sociali: la posizione della Corte di Cassazione
Altro è, a parere di chi scrive, il motivo per cui non sempre è obbligatorio l’adempimento della fatturazione ai fini IVA della cessione che deriva dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione - Sezione 5 - Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5156 – la quale ha affermato il seguente principio di diritto:
“Le operazioni di cessione relative ad azioni o partecipazioni in una società non rientrano nella sfera di applicazione dell’Iva, salvo che sia accertato che sono state effettuate nell’ambito di un’attività commerciale di acquisizione di titoli per realizzare un’interferenza diretta o indiretta nella gestione delle società di cui si è realizzata l’acquisizione di partecipazioni o che costituiscono il prolungamento diretto, permanente e necessario, dell’attività imponibile”.
Vero è che il principio di diritto non è fonte del diritto stesso nel nostro sistema tributario, né rappresenta la codificazione di una norma di dettaglio a corredo di quella interpretata, ma costituisce comunque la “generalizzazione della interpretazione ed applicazione della norma alla fattispecie concretamente realizzata” come questa in analisi.
Ma ora vediamo da quale motivo scaturisce l’enunciazione del citato principio. La sentenza puntualizza la corretta modalità per verificare che la cessione rientri o meno nell’attività propria, ed a tal fine i giudici scrivono:
“per verificare se una determinata operazione attiva rientri o non nell’attività propria di una società, ai fini dell’inclusione nel calcolo della percentuale detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti, occorre avere riguardo non già all’attività previamente definita dall’atto costitutivo come oggetto sociale, ma a quella effettivamente svolta dall’impresa, in quanto, ai fini dell’imposta, rileva il volume d’affari del contribuente, costituito dall’ammontare complessivo delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi compiute, e, quindi, l’attività in concreto esercitata”.
Il secondo punto verificato dalla sentenza riguarda la questione se la cessione di partecipazione azionaria possa essere considerata o meno fuori campo IVA, e su questo cita la Corte di Giustizia UE :
“ (...) va osservato che la Corte di giustizia (causa C-502/2017, C&D Foods acquisition ApS) ha precisato che non ha la qualità di soggetto passivo Iva, ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2006/112, né il diritto a detrazione, in base all’articolo 168 di tale direttiva, una società il cui unico oggetto consista nell’acquisizione di partecipazioni in altre società senza interferire direttamente o indirettamente nella gestione di queste ultime”.
Ed ancora i giudici scrivono citando sempre la Corte di Giustizia UE:
“Difatti, il mero acquisto e la mera detenzione di azioni non costituiscono, di per sé, un’attività economica ai sensi della direttiva 2006/112, che conferisce al soggetto che le abbia effettuate la qualità di soggetto passivo, dato che tali operazioni non comportano lo sfruttamento di un bene volto alla produzione di introiti aventi carattere di stabilità, dal momento che l’unico reddito risultante da dette operazioni è costituito dall’eventuale profitto al momento della vendita delle azioni di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze del 29 ottobre 2009, SKF, C-29/08, punto 28 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 17 ottobre 2018, Ryanair, C-249/17, punto 16)”.
La sentenza prosegue citando ancora altre sentenze UE che di fatto sanciscono che:
“solo i versamenti che costituiscono il corrispettivo di un’operazione o di un’attività economica sono inclusi nell’ambito di applicazione dell’IVA, il che non vale per i versamenti risultanti dalla semplice proprietà di un bene, come i dividendi o altri profitti derivanti dalle azioni”
La cessione B2B a soggetto UE
Concludiamo l’analisi del caso con la verifica degli adempimenti nel caso di cessione a soggetto passivo UE.
Se si volesse considerare prevalente l’interpretazione comunitaria, vedasi la la Direttiva 2006/112/CE articolo 6 paragrafo 1, secondo la quale si tratterebbe di prestazioni di servizi rientrando nella definizione di “prestazioni generiche” anche le cessioni di beni immateriali, intendendosi per “cessioni di beni”, tra le altre, le operazioni che comportano “il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario”, l’operazione è territorialmente rilevante nel Paese del committente, ex art. 7 ter del 633 ed il conseguente regime sarebbe quello della esclusione da IVA per assenza del requisito territoriale.
La nozione di “prestazioni di servizi” in ambito comunitario ha quindi carattere residuale ricomprendendo “ogni operazione che non costituisce una cessione di beni”.
Nel caso, invece, in cui volesse considerasse prevalente l’interpretazione nazionale derivante anche dalla lettura dell’art. 1 del Decreto del Ministero delle Finanze n. 75/2004 che tratta l’applicazione dell’IVA nel settore bancario, la cessione di partecipazioni si qualificherebbe appunto come cessione di beni.
“Le fatture relative alle prestazioni di servizi di cui all’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e quelle relative alle cessioni di beni esenti di cui all’articolo 10, primo comma, n. 4), dello stesso decreto, escluse le operazioni di cui al successivo n. 11) del medesimo articolo 10, che le banche sono tenute a rilasciare a richiesta della controparte”.
Vero è, però, che si realizza una cessione di beni non imponibile ex art. 41 del DL 331/1993, quando si verifica un trasferimento di merce tra paesi UE, che in questo caso non si può in alcun modo concretizzare con la conseguente inapplicabilità del relativo regime di non imponibilità.
In tal caso resterebbe invece applicabile il regime di esenzione ex art. 10 c. 1 n. 4 del DPR 633/72.
Fermo restando l’obiettiva incoerenza della normativa e della prassi nazionale con le direttive UE possiamo solo auspicare che sul punto le norme e le interpretazioni della stessa possano dirimere quanto prima le ambiguità sopra evidenziate circa l’assoggettamento o meno della operazione alla normativa IVA ed alla sua qualificazione in cessione di bene o prestazione di servizi, foriere di problemi applicativi e di potenziali contenziosi che potrebbero essere evitati sul nascere.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Il trattamento ai fini IVA della cessione di quote sociali