Accertamenti bancari: ai fini della prova contraria che il contribuente deve fornire non è esaustivo il fatto che abbia documentalmente provato che la banca, per motivi di privacy, gli ha negato la chiesta certificazione circa l'emittente dell'assegno circolare. A stabilirlo è l'Ordinanza della Corte di Cassazione numero 24238/2021.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 24238 dell’8 settembre 2021, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di accertamenti bancari.
I giudici di legittimità hanno in particolare, tra le altre, affermato che, ai fini della prova contraria che il contribuente deve fornire per superare la presunzione di legge da indagini finanziarie, non è esaustivo il fatto che questi abbia documentalmente provato che la banca, per motivi di privacy, gli ha negato la richiesta certificazione circa l’emittente di un assegno circolare.
Nel giudizio in esame, l’Agenzia delle Entrate, soccombente sia in primo che in secondo grado, aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che, nell’ambito di una controversia su un avviso di accertamento IRPEF 2006, ne aveva rigettato l’appello.
- Corte di Cassazione - Ordinanza n. 24238 dell’8 settembre 2021
- Il testo integrale dell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 24238 dell’8 settembre 2021
L’onere della prova in caso di accertamenti bancari: l’Ordinanza n. 24238/2021
La Commissione Tributaria Regionale aveva in particolare accolto la tesi del contribuente, il quale aveva giustificato un versamento sul suo conto bancario di un assegno circolare di Euro 52.000 quale corrispettivo da lui percepito per la cessione di quote societarie.
Nell’impugnare la sentenza, l’Agenzia delle Entrate lamentava quindi la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697 e 2727 cod. civ., 32, comma 1, n. 2, Dpr. n. 600 del 2973, e 7, comma 1, Dlgs. n. 546 del 1992, sostenendo che, negli accertamenti fondati sulle movimentazioni bancarie, spettava al contribuente dimostrare l’irrilevanza delle stesse movimentazioni ai fini reddituali, laddove, nella specie, il contribuente non era invece riuscito a dimostrare che l’assegno circolare fosse effettivamente quello consegnatogli quale corrispettivo della asserita cessione di azioni della società.
Del resto, sottolineava ancora l’Amministrazione finanziaria, anche se il contribuente avesse offerto la dimostrazione che la movimentazione fosse stata effettivamente riferita a quella cessione di quote, il medesimo non aveva comunque offerto la prova che si trattasse di proventi già dichiarati e correttamente tassati.
E, in ogni caso, rilevava la ricorrente Amministrazione, i poteri di ordinario controllo dell’Agenzia delle Entrate non potevano del resto certo essere utilizzati, a richiesta del contribuente, per sopperire a proprie carenze istruttorie.
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.
Evidenziano i giudici di legittimità che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 767 del 2011; Cass. n. 15857 del 2016; Cass. n. 18066 del 2016; Cass. n. 18125 del 2015; Cass. n. 4086 del 2017), in presenza di accertamenti bancari svolti ai sensi dell’art. 32 del Dpr. n. 600 del 1973, è onere del contribuente imprenditore dimostrare che i proventi desumibili dalle movimentazioni bancarie non debbano essere recuperati a tassazione: o per averne egli già tenuto conto nelle dichiarazioni, o perché fiscalmente non rilevanti, in quanto non riferibili ad operazioni imponibili.
Rileva poi la Cassazione che l’onere dell’Amministrazione finanziaria di provare la sua pretesa è ex se soddisfatto attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari, restando a quel punto a carico del contribuente l’onere di provare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, e fornendo, a tal proposito, una prova non generica, ma analitica e specifica, riferita cioè ad ogni singolo versamento bancario.
Accertamenti bancari: la Corte di Cassazione su assegno circolare e onere della prova
Tanto premesso, venendo al caso in esame, non era quindi condivisibile quanto sostenuto dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale, come detto, aveva ritenuto plausibile che l’assegno circolare di Euro 52.000,00, versato sul conto corrente bancario del contribuente imprenditore, non fosse riconducibile a suoi introiti imprenditoriali, ma costituisse il corrispettivo a lui versato per la cessione di quote azionarie (nello specifico per la vendita di un posto barca presso un porto turistico).
Il fatto poi che detta operazione di vendita risultasse annotata sul libro soci dell’anzidetto porto turistico, secondo la Cassazione, non era esaustivo, così come, come detto, neppure era esaustivo l’avere il contribuente documentalmente provato che la banca, per motivi di privacy, gli avesse negato la certificazione circa l’emittente dell’assegno circolare di cui si controverteva, dichiarandosi comunque pronta a produrla su richiesta dell’Agenzia delle Entrate.
Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.
In sostanza, in caso di accertamenti bancari, tutti i movimenti sui conti del contribuente, siano essi accrediti o addebiti, si presumono riferiti alla sua attività economica, i primi quali ricavi e i secondi quali corrispettivi versati per l’acquisto di beni e servizi reimpiegati nella produzione, spettando appunto all’interessato fornire la prova contraria che i singoli movimenti non si riferiscono ad operazioni imponibili (cfr., Cass. sez. 5, 30 dicembre 2015, n. 26111).
La presunzione legale juris tantum, nascente dal Dpr. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, può dunque in questi casi essere vinta dal contribuente soltanto indicando la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti, con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (cfr., Cass. n. 26111/2015, Cass. n. 21800/2017).
La presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla, in sostanza, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare rimesse e prelevamenti inerenti all’esercizio della sua attività imprenditoriale.
In ogni caso, come visto, il contribuente può comunque fornire la prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici (per la tesi più rigorosa, secondo cui il contribuente, nel fornire la prova contraria, non può invece ricorrere a presunzioni, vedi però Cass., 24 luglio 2012, n. 13035; Cass. 6 ottobre 2010, n. 20735; Cass. 5 dicembre 2007, n. 25365), da sottoporre, naturalmente, ad attenta verifica da parte del giudice di merito.
Nel caso, infine, in cui il contribuente fornisca tale prova analitica, superando così la richiamata presunzione legale relativa, il giudice, pena il difetto di motivazione della pronuncia, è d’altra parte comunque tenuto ad una valutazione altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato (cfr., Cass., 28 novembre 2018, n. 30786 e Cass., 3 maggio 2018, n. 10480).
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