Affitto di azienda e deducibilità delle quote di ammortamento: spetta al concedente o all'affittuario?
La giurisprudenza tributaria si è espressa più volte in tema di deducibilità di quote di ammortamento di beni nell’ambito di una fattispecie di azienda in affitto.
Per esempio, nel caso dell’Ordinanza della Corte di Cassazione numero 22171/2022 la società impugnava un avviso accertamento, relativo al periodo di imposta 2003, con il quale erano state rideterminate componenti negative di reddito e recuperate imposte e relative sanzioni.
L’avviso di accertamento considerava, in particolare, indeducibili le quote di ammortamento relative ai beni materiali, in quanto oggetto di un contratto di affitto di ramo di azienda, intercorso con altra società e relativo ad un hotel (cui aveva fatto seguito altro contratto di affitto di azienda relativo a ristorante-bar), la cui deducibilità, secondo l’Ufficio, sarebbe spettata all’affittuario.
La società contribuente, tra le altre, deduceva che il contratto di affitto aveva previsto la deducibilità delle quote di ammortamento in capo alla concedente e non all’affittuaria, essendo stata pattuita una deroga convenzionale espressa all’art. 2561 cod. civ., in materia di obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili, come previsto dall’art. 14, secondo comma, Dpr. 4 febbraio 1988, n. 42.
Affitto di azienda e deducibilità quote di ammortamento: i fatti
La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale riteneva che la clausola del contratto di affitto di azienda avesse in effetti previsto espressamente il diritto della contribuente alla deduzione delle quote di ammortamento, in deroga al disposto dell’art. 2561 cod. civ.
L’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, denunciando, per quanto di interesse, la violazione dell’art. 14 Dpr. 4 febbraio 1988, n. 42 e degli artt. 1362 e ss. e 2561 cod. civ.
Deduceva in particolare la ricorrente che la lettura complessiva delle clausole contrattuali induceva in realtà a ritenere non derogato il disposto di cui all’art. 2561 cod. civ., avendo pertanto il giudice di appello violato l’art. 1362, primo comma, cod. civ., risultando la comune volontà dei contraenti di porre a carico dell’affittuario l’obbligo del mantenimento in efficienza dei beni aziendali, con conseguente accollo del relativo peso economico.
Tale volontà, secondo l’Amministrazione finanziaria, era desumibile:
- dalle clausole che prevedevano il ripristino, all’atto della restituzione dell’azienda, dei beni aziendali modificati senza assenso dell’affittante e l’obbligo di conservazione dei beni in buono stato e di provvedere alla ordinaria manutenzione;
- dalla previsione di clausola risolutiva espressa in caso di inadempienze dell’affittuario;
- dalla previsione di un nuovo inventario all’atto della restituzione dell’azienda.
Secondo la Suprema Corte, la censura era infondata.
Affitto di azienda e deducibilità quote di ammortamento: la normativa di riferimento
Evidenziano i giudici di legittimità che l’art. 2561, secondo comma, cod. civ. prevede, a carico dell’affittuario di azienda, l’obbligo di conservazione del livello di efficienza dei beni aziendali.
L’assunzione di detto obbligo tutela l’interesse del concedente, sia nel caso in cui avvenga la circolazione inversa dell’azienda (ove il concedente riprenda la gestione caratteristica), sia in caso di circolazione ulteriore dell’azienda, salvaguardando il compendio aziendale nel suo complesso (efficienza degli impianti e approvvigionamento delle scorte).
Ai fini fiscali il legislatore - in base al combinato disposto degli artt. 67, comma 9, Dpr. 22 dicembre 1986, n. 917 e 14, comma 1, Dpr. n. 42 del 1988 e, successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 18 novembre 2005, n. 247 a termini dell’art. 102, comma 8, Dpr. n. 917 del 1986, - ha seguito il principio di derivazione del reddito fiscale da quello civilistico.
In particolare, quanto al trattamento fiscale dei beni ammortizzabili dei beni compresi nell’azienda data in affitto, l’ammortamento compete dunque al soggetto che ha l’obbligo di conservare in efficienza l’azienda, ossia - secondo una costante giurisprudenza della Corte - all’affittuario e non al concedente (cfr., Cass. 08/03/2019, n. 6836; Cass. 15/01/ 2007, n. 675; Cass. 24/01/2001, n. 997).
L’affittuario si sostituisce infatti al concedente nella posizione fiscale riferibile agli elementi patrimoniali conferiti nel ramo di azienda, posto che, come visto, in via ordinaria, è il soggetto che si assume il rischio della perdita di valore dei beni per minor valore conseguente alla perdita, all’uso o all’obsolescenza tecnologica dei beni aziendali, con la conseguenza che il risultato di gestione dell’affittuario tiene conto dell’onere per logorio e perimento dei beni aziendali, traslato dalla posizione del concedente.
Vero è però che la disciplina fiscale consente comunque che le parti del contratto di affitto di azienda possano derogare convenzionalmente alla disciplina civilistica di cui all’art. 2561, secondo comma, cod. civ., nel caso in cui l’affittuario non assuma convenzionalmente l’obbligo di mantenimento in efficienza del compendio aziendale.
In questo caso, la titolarità del diritto di deduzione degli ammortamenti non viene quindi traslata sul reddito dell’affittuario (cfr., Cass. 10/08/ 2010, n. 18537, Cass. 21/01/2008, n. 1172 e Cass. 21/12/2018, n. 33219).
Affitto di azienda e deducibilità quote di ammortamento: la pronuncia della Corte di Cassazione
Tanto premesso, venendo al caso di specie, il giudice di appello aveva dato per l’appunto rilievo prevalente alla clausola che derogava espressamente al disposto dell’art. 2561 cod. civ., prevedendo che:
“le quote di ammortamento riguardanti la componente mobiliare ed immobiliare del presente contratto sono deducibili, anche ai fini fiscali, dalla società affittante. Tale pattuizione costituisce deroga espressa alle disposizioni contenute nell’art. 2561 cod. civ. fatta eccezione per gli incrementi e le sostituzioni direttamente effettuate dall’affittuaria con spese a proprio carico.”
Lo stesso giudice aveva inoltre, motivato in ordine alla coerenza della detta clausola con la posizione di terzietà del soggetto affittuario.
Sotto questo profilo, la ricorrente prospettava tuttavia un’opposta interpretazione del contratto, di carattere logico-sistematica, facendo ricorso all’art. 1362, primo comma, cod. civ., fondata sull’interpretazione di alcune clausole, che, invece, a suo dire, avrebbero dovuto indurre a ritenere che la comune intenzione delle parti, diversamente e in contrasto con quanto espressamente previsto nella clausola valorizzata dal giudice di appello, fosse quella di non derogare al disposto dell’art. 2561 cod. civ.
La ricorrente, però, rileva la Corte, non evidenziava in quali termini l’interpretazione letterale, fondata sulla clausola valorizzata dal giudice di appello, la quale ha valore generalmente preminente nell’interpretazione del contratto (cfr., Cass., Sez. U., 25/07/2019, n. 20181, Cass. 12/07/2010, n. 16298), risultasse incoerente con il complessivo contenuto del contratto e con il comportamento tenuto dalle parti; sola circostanza in forza della quale la ricostruzione della comune intenzione delle parti può essere operata derogando all’interpretazione letterale delle clausole (cfr., Cass. 26/07/2019, n. 20294, Cass. 28/06/2017, n. 16181, Cass. 01/12/2015, n. 24421, Cass. 9/12/ 2014, n. 25840).
La ricorrente, del resto, conclude la Cassazione, non aveva nemmeno evidenziato in che termini le clausole contrattuali (in particolare, quella che prevedeva la deroga alla disciplina civilistica) non fossero intelligibili, circostanza che poteva costituire ulteriore presupposto al fine di superare l’interpretazione fondata su una clausola espressa del contratto (cfr., Cass. 19/02/2020, n. 4189).
La ricorrente Amministrazione, in sostanza, si limitava a prospettare una comune intenzione delle parti diversa da quella indicata nella clausola in cui era espressamente indicata la deroga pattizia all’art. 2561 cod. civ., senza però esplicitare il percorso argomentativo sulla base del quale le clausole evidenziate potevano fare presagire una diversa interpretazione, così mancando di precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si fosse discostato dai canoni legali assunti come violati, e non potendo la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (cfr., Cass. 09/04/ 2021, n. 9461), laddove l’esigenza di far prevalere una comune intenzione delle parti difforme da quanto risultante dal senso letterale delle parole è un tipico processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (cfr., Cass. 15/07/2016, n. 14432).
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