Stabile organizzazione occulta

Giovambattista Palumbo - Dichiarazioni e adempimenti

Con la sentenza n. 7202 del 2024, la Corte di Cassazione ha definito gli aspetti di rilievo fiscale di una asserita stabile organizzazione occulta sul territorio nazionale

Stabile organizzazione occulta

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 7202 del 2024, ha affrontato un caso relativo ad una asserita stabile organizzazione occulta sul territorio nazionale, definendone gli aspetti di rilievo fiscale.

Nella specie l’Agenzia delle Entrate rettificava le dichiarazioni IRES, IRAP E IVA relative all’anno di imposta 2012 di una società, sede secondaria, con sede legale a Milano, di società statunitense operante a livello mondiale.

Stabile organizzazione occulta: il caso di specie

La sede secondaria (branch) era stata costituita nel 2001, al fine di svolgere in Italia, per conto della casa madre, servizi promozionali, di marketing e di supporto alle vendite concluse direttamente da altre società del Gruppo nei confronti di un ridotto numero di distributori presenti nel territorio italiano, la cui clientela finale era costituita per lo più da venditori al dettaglio dei medesimi prodotti.

Le vendite dei prodotti ai distributori venivano a questi ultimi fatturate direttamente dalla casa madre tramite il rappresentante fiscale Iva europeo, una consociata olandese della medesima società statunitense.

I relativi ricavi non venivano quindi assoggettati in Italia a tassazione ai fini IRES E IRAP, in quanto imputati a soggetto non residente e non prodotti tramite stabile organizzazione in Italia, né ad Iva, in quanto relativi a cessioni intracomunitarie dall’Olanda all’Italia (con applicazione del “reverse charge” ai sensi del d.l. n. 331/93).

I servizi di supporto venivano invece compensati come disciplinato in due contratti di servizio (agreement): l’uno, che prevedeva un compenso determinato nella misura del 7,5 per cento dei costi operativi sostenuti nell’esercizio di riferimento; e l’altro, che prevedeva un compenso pari ai costi sostenuti, più l’1,2 per cento dei ricavi netti sulle vendite verso i clienti sul territorio italiano per gli ordini sollecitati e/o le vendite agevolate dall’attività svolta dalla “branch”; compensi tutti regolarmente dichiarati e assoggettati a tassazione in Italia.

In esito alla verifica fiscale era stato dunque contestato che la sede secondaria italiana avesse operato, al di là dei limiti formali dei contratti di prestazione di servizi, alla attività promozionale e di assistenza alla clientela, rilevando come essa concordasse in realtà con i distributori italiani elementi essenziali e decisivi dei contratti con la casa madre, quali, in particolare, gli sconti (“rebates”) riconosciuti loro al raggiungimento di determinati volumi di vendite al dettaglio.

Ne derivava, secondo l’Amministrazione finanziaria, che la sede secondaria non si era limitata alla attività promozionale e di assistenza alla clientela, ma aveva operato con autonomo potere negoziale, dovendo quindi essere identificata come stabile organizzazione in Italia della società statunitense, e dovendo ad essa essere imputati i ricavi generati dalla vendita in Italia dai prodotti della casa madre, da sottoporre a tassazione ai fini IRES E IRAP.

Ai fini Iva, inoltre, ciò comportava che le cessioni ai distributori italiani, provenendo dalla stabile organizzazione italiana, dovevano essere considerate cessioni interne, da assoggettare quindi a tassazione ordinaria, e non cessioni intracomunitarie, non soggette ad imposta ex art. 41 d.l. 331/93.

La società proponeva ricorso avverso gli atti impositivi, eccependo, per quanto di interesse, l’illegittima applicazione delle disposizioni sulla stabile organizzazione e l’illegittima applicazione della disciplina dell’IVA con riguardo alla territorialità dell’imposta.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza poi confermata anche in sede di appello, escludendo la natura di stabile organizzazione della sede secondaria.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva infine in cassazione avverso la sentenza della CTR.

Stabile organizzazione occulta: il parere della Cassazione

La Suprema Corte, nel decidere la causa e nel ritenere infondato il ricorso, ricorda che la stabile organizzazione, istituto di origine convenzionale, ha ricevuto una disciplina compiuta nell’ordinamento interno a seguito delle modifiche apportate dal dl.gs. 12.12.2003, n. 344 all’art. 162 d.P.R. 22.12.1986, n. 917, il quale, nella versione applicabile ratione temporis (ovvero nella versione precedente alla novella introdotta dall’art. 1 della legge del 27/12/2017, n. 205, conseguente alla modifica, nel 2017, del modello Ocse), prevedeva, al primo comma, che “l’espressione “stabile organizzazione” designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato” e, al quarto comma, che “Una sede fissa di affari non è, comunque, considerata stabile organizzazione se: (…) e) viene utilizzata ai soli fini di svolgere, per l’impresa, qualsiasi altra attività che abbia carattere preparatorio o ausiliario”.

Specularmente poi, rileva la Cassazione, la Convenzione tra Italia e Stati Uniti del 25/08/1999, all’art. 5 comma 1, dispone che: “Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “stabile organizzazione” designa una sede fissa di affari in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività”, precisando al terzo comma che “Non si considera che vi sia una “stabile organizzazione” se: (…) (e) una sede fissa di affari è utilizzata, per l’impresa, ai soli fini di pubblicità, di fornire informazioni, di ricerche scientifiche o di attività analoghe che abbiano carattere preparatorio o ausiliario”.

Quanto al rapporto tra le due fonti, la Corte rileva che è evidente la relazione di circolarità, che, nella definizione e nell’interpretazione della nozione di stabile organizzazione, lega la norma interna di cui all’art. 162 d.P.R. n. 917 del 1986, già modellata sui criteri convenzionali, alla specifica previsione convenzionale, e, pertanto, agli strumenti che sono di ausilio all’interpretazione di quest’ultima (in particolare il modello di convenzione ed il relativo commentario Ocse).

Fermo restando, comunque, che (come rilevato da Cass. 20/11/2019, n. 30140) le convenzioni, una volta recepite nel nostro ordinamento interno con legge di ratifica, acquistano il valore di fonte primaria ai sensi dell’art. 10, comma 1, Cost. (che prevede il sistema di adattamento dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale) e dell’art. 117 Cost. (che prevede l’obbligo dello Stato e delle Regioni di conformarsi ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed agli obblighi internazionali), come peraltro ribadito, nella materia tributaria, anche dall’art. 75 del d.P.R. n. 600 del 1973 (“nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi accordi internazionali resi esecutivi in Italia”).

Sulla base delle norme da ultimo citate, quindi, la stessa Corte (cfr., Cass., 19/01/2009, n. 1138; Cass., 15/7/2016, n. 14474) ha non solo affermato il principio generale che le Convenzioni, per il carattere di specialità del loro ambito di formazione, così come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, ma ha anche specificato che, in materia d’imposte sul reddito, le norme pattizie derivanti da accordi tra gli Stati prevalgono, attesane la specialità e la ratio di evitare fenomeni di doppia imposizione, su quelle interne (cfr., Cass., 24/11/2016, n. 23984; Cass., 14/12/2022, n. 36679).

Tanto premesso, i giudici di legittimità evidenziano che la motivazione dei giudici di merito era idonea e corretta laddove rilevava che l’Ufficio non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza di una sede fissa di affari, come definita ai sensi della Convenzione sopra ricordata, che facesse ritenere sussistente una stabile organizzazione, anche considerato che era la casa madre a fissare i prezzi e ad avallare operazioni promozionali cui erano collegate le eventuali condizioni di sconto.

Secondo la Cassazione, del resto, la CTR aveva ricostruito puntualmente l’architettura del gruppo con riguardo alla centralità esterna all’Italia del potere decisionale, escludendo inoltre, sulla base degli elementi istruttori di cui aveva dato compiutamente conto, l’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini Iva sul territorio nazionale, andando a tal proposito richiamata la giurisprudenza comunitaria che ha affermato che:

L’articolo 44 della direttiva IVA e l’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento di esecuzione n. 282/2011 devono essere interpretati nel senso che una società avente la propria sede legale in uno Stato membro non dispone di una stabile organizzazione in un altro Stato membro per il motivo che tale società vi detiene una società figlia che mette a sua disposizione mezzi umani e tecnici in forza di contratti con i quali essa le fornisce, in via esclusiva, servizi di marketing, regolamentazione, pubblicità e rappresentanza che sono in grado di avere un’influenza diretta sul volume delle sue vendite” (CGUE sentenza C-333/20 del 7 aprile 2022, Berlin Chemie A. Menarini).

La Cassazione ricorda inoltre che la Corte di Giustizia UE ha da ultimo affermato che:

Un soggetto passivo destinatario di servizi, la cui sede d’attività economica è fissata fuori dell’Unione europea, non dispone di una stabile organizzazione nello Stato membro in cui è stabilito il prestatore dei servizi di cui trattasi, giuridicamente distinto da tale destinatario, quando quest’ultimo non vi dispone di una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici che possa costituire tale stabile organizzazione, e ciò anche qualora il soggetto prestatore dei servizi realizzi a vantaggio di detto soggetto destinatario, in esecuzione di un impegno contrattuale esclusivo, prestazioni di lavoro per conto terzi nonché una serie di prestazioni accessorie o supplementari, che concorrono all’attività economica del soggetto passivo destinatario in tale Stato membro” (CGUE sentenza C-232- 2022 del 29 giugno 2023, Cabot Plastics Belgium SA).

Legittimamente quindi la CTR aveva escluso l’effettuazione, da parte della sede secondaria italiana, di attività che esorbitassero dalla mera promozione e assistenza alle vendite ed alla clientela.

Tanto premesso sullo specifico caso processuale, in termini più generali giova evidenziare che, in tema di imposte sui redditi, ai fini dell’individuazione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato di soggetto non residente, l’accertamento deve essere condotto sul piano formale, ma anche e soprattutto su quello sostanziale.

Per l’imponibilità del reddito d’impresa del soggetto non residente è necessaria, in particolare, una presenza che sia incardinata nel territorio dell’altro Stato dotata di una certa stabilità, una sede di affari capace, anche solo in via potenziale, di produrre reddito e comunque un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre (cfr., Cass., 10/01/2024, n. 992, Cass., n. 1709/2023, Cass., n. 2597/2023, Cass. n. 21693/2020; Cass. n. 30033/2018).

E non comporta la presenza di una stabile organizzazione dell’impresa non residente il solo fatto che essa eserciti nel territorio dello Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale, o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente; a condizione naturalmente che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività.

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