La somma di denaro, al pari di altri investimenti finanziari o immobiliari, detenuta da un contribuente italiano su un conto corrente di una banca estera, non può essere considerata, di per sé sola, parte del reddito imponibile e pertanto la violazione del quadro RW non integra automaticamente e acriticamente il delitto di riciclaggio. A stabilirlo la Corte di Cassazione con la Sentenza n. 19849/2021.
L’omessa presentazione del quadro RW non integra da sola il reato di riciclaggio.
Difatti la violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale da parte del contribuente residente che detiene attività finanziarie o investimenti all’estero non è sufficiente a configurare ex se il reato di infedele dichiarazione, essendo necessari ulteriori elementi per affermare l’esistenza e la certezza del reato fiscale. Difettando la prova certa del reato presupposto, viene meno anche la configurabilità del reato di riciclaggio di cui all’art. 648-bis del codice penale.
Questo il contenuto della sentenza n. 19849 del 19 maggio 2021 emessa dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione.
- Corte di Cassazione - Sentenza numero 1849 del 19 maggio 2021
- Il testo integrale della sentenza numero 19849 della Corte di Cassazione del 19 maggio 2021.
Per il riciclaggio non basta l’omessa presentazione del quadro RW: il fatto
La controversia si riferisce alla pronuncia di condanna emessa dalla Corte territoriale nei confronti dell’imputato per aver riciclato, attraverso una serie di operazioni finanziarie, il denaro proveniente da reato di infedele dichiarazione compiuto da due coniugi italiani.
La provvista finanziaria, originariamente custodita su conti correnti di una banca svizzera intestati ai due coniugi, è stata prima trasferita su un conto corrente di una banca sanmarinese, intestato ad una società inglese amministrata dal presunto riciclatore, e poi ancora su un altro conto dello stesso istituto di credito sanmarinese, nuovamente intestato ai due coniugi, i quali non hanno mai presentato il quadro RW della dichiarazione.
Secondo la ricostruzione del Collegio di primo grado lo scopo delle operazioni era di ostacolare l’accertamento della provenienza del denaro dal reato fiscale di infedele dichiarazione, commesso dai titolari del conto corrente svizzero, su cui era depositato l’originario profitto dell’illecito fiscale.
Da qui la condanna al delitto di riciclaggio di cui all’art. 648-bis del cod.pen., confermata nel merito dalla Corte d’appello.
Avverso tale sentenza ha presentato ricorso per cassazione il reo, affermando l’erroneità della pronuncia nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto integrati i requisiti del reato di dichiarazione infedele come reato presupposto del riciclaggio.
In particolare, il ricorrente ha contestato la tesi, non supportata da opportuni elementi di riscontro, per cui la provvista rilevata sul conto illecitamente detenuto all’estero costituisse integralmente reddito imponibile nell’anno in cui l’attività finanziaria era stata accertata e non, invece, provvista accumulata in anni precedenti e non del tutto generate da attività illecite.
L’imputato ha anche contestato l’interpretazione del collegio sulla disciplina del monitoraggio fiscale di cui al D.L. 167/1990, avente valenza esclusivamente fiscale e non penale, come invece affermato dai giudici.
La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso presentato dal ricorrente e lo ha accolto, annullando la sentenza impugnata limitatamente al reato di riciclaggio perché il fatto non sussiste.
Reato di riciclaggio e reato fiscale presupposto
La definizione del riciclaggio nel sistema repressivo del codice penale è contenuta nell’art. 648-bis per cui, fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.492.
Nella normativa penale, pertanto, affinché si configuri il delitto di riciclaggio è necessario che:
- sia commesso un reato presupposto di natura non colposa da cui si origini una provvista illecita;
- l’autore del reato presupposto sia persona diversa da colui il quale commette il reato di riciclaggio;
- siano compiuti atti o operazioni finalizzati ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa della provvista.
Dopo ampio dibattito è oggi assodato affermare che tutti i reati fiscali disciplinati nel D.Lgs. 74 del 2000 costituiscono reati-presupposto del delitto di riciclaggio, ivi compresa l’infedele presentazione della dichiarazione di cui all’art. 4 del decreto.
La norma in particolare punisce chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente, (i) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila e (ii) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni. Il reato è punito con la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi.
Riciclaggio e omessa presentazione del quadro RW: la decisione
Il tema su cui ruota la controversia in commento non attiene dunque alla problematica se l’illecita condotta dell’infedele dichiarazione, imputata a soggetti diversi dal riciclatore, possa o meno essere considerata presupposto del delitto di riciclaggio bensì alla valutazione del materiale probatorio per la contestazione, prima, del reato di infedele dichiarazione e, poi, di riciclaggio.
Nel caso che ci occupa la configurabilità del reato presupposto di infedele dichiarazione è stata acclarata dal giudice in base alla documentazione contabile acquisita nel corso del procedimento, da cui è stato possibile constatare che l’intestatario del conto svizzero, sebbene obbligato in quanto contribuente fiscalmente residente in Italia, avesse omesso di presentare il quadro RW della dichiarazione dei redditi.
Da qui il giudice territoriale, ignorando peraltro che il correntista avesse dichiarato di possedere le somme “da oltre vent’anni”, ha dedotto che l’ammontare dell’attività finanziaria illecitamente detenuta all’estero costituisse in tutto e per tutto “reddito sul quale avrebbe dovuto pagare le imposte in Italia, perché relativo ad una somma mai sottoposta a tassazione negli anni precedenti che, perciò, doveva considerarsi integralmente tassabile nell’anno in cui ne era stata accertata l’esistenza”.
Contestando la correttezza di tale affermazione il Collegio di legittimità ha precisato, in primo luogo, che la disciplina del monitoraggio fiscale di cui all’art. 4, co. 1 del D.L 167/1990 prevede, in caso di violazione dell’obbligo dichiarativo, un apparato sanzionatorio amministrativo (e non penale) costituito, dopo la soppressione dell’istituto della confisca ad opera dell’art. 9 della Legge 97/2013, esclusivamente da sanzioni pecuniarie di cui all’art. 5 del D.L. 167/1990.
La Suprema Corte ha inoltre rimarcato che è erroneo affermare che le somme detenute all’estero rappresentino ex se per intero reddito imponibile del periodo d’imposta in cui è stata accertata l’esistenza dell’asset finanziario.
Soggetto a imposizione diretta, infatti, non è lo stock finanziario bensì l’ammontare dei frutti che l’asset è suscettibile di produrre, che devono essere dichiarati -come reddito - negli appositi quadri RL, RM o RT della dichiarazione (salva l’ipotesi di prodotti finanziari infruttiferi o i cui i redditi sono percepiti in un successivo periodo d’imposta), e solo come consistenza nel quadro RW.
Tale novella ricchezza, andata a confondersi con il patrimonio finanziario pre-esistente, potrebbe anche essere reddito sottratto a tassazione, ma tassarlo come reddito in un successivo periodo d’imposta violerebbe il principio della autonomia dell’obbligazione tributaria per singoli periodi d’imposta sancito dall’art. 7 (e dall’art. 76 in caso di società) del TUIR, in base al quale l’imposta è dovuta per periodi d’imposta, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma.
Al di là della provenienza illecita della provvista il principio non varia in quanto la detenzione di denaro (al pari di altra attività finanziarie o investimenti) all’estero non può essere considerata, di per sé sola e per intero, parte del reddito imponibile del contribuente residente nel singolo periodo d’imposta di accertamento, essendo necessaria l’analitica individuazione del periodo in cui i presupposti d’imposta si sono realizzati.
A ben vedere, ma si tratta di fattispecie diversa da quella in commento e di cui si parla solo per completezza, la somma detenuta all’estero può essere considerata interamente costituita da redditi sottratti a tassazione in Italia solo in forza del mancato superamento da parte del contribuente della presunzione legale relativa prevista dall’art. 12, co. 2 del D.L. 78/2009, applicabile ai patrimoni detenuti in Stati o territori a regime fiscale privilegiato in violazione delle norme sul monitoraggio fiscale.
In linea di principio, quindi, non potendosi imputare automaticamente l’intera somma a reddito tassabile nel periodo d’imposta in cui è accertata l’esistenza dell’attività finanziaria all’estero, ne deriva che l’ammontare non dichiarato nel quadro RW non può mai essere preso acriticamente a base per integrare le soglie di punibilità previste dall’art. 4 del D.Lgs. 74/2000 come sommatoria di “elementi attivi sottratti a tassazione” nel singolo periodo d’imposta, a nulla rilevando l’impossibilità di riferire l’importo al periodo d’imposta di corretta competenza.
Ne deriva che l’omessa dichiarazione dell’attività finanziaria estera non è elemento sufficiente, di per sé solo, a integrare il superamento delle soglie di punibilità penali, mancando la prova certa dell’esistenza del delitto presupposto necessario, poi, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 648-bis del codice penale.
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