Gli elementi riscontrati presso soggetti terzi sono potenzialmente idonei a sorreggere un accertamento e non spetta all'Agenzia delle Entrate l'onere di fornire ulteriori elementi probatori a sostegno della pretesa tributaria
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 26141/2024, ha chiarito il valore probatorio delle notizie acquisite presso terzi nella ripartizione dell’onere della prova tra contribuente ed Agenzia delle Entrate.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva notificato al titolare di una ditta individuale un avviso di accertamento, con il quale aveva recuperato a tassazione ricavi “in nero”, come desunti dall’emissione di fatture non contabilizzate rinvenute nel corso di controlli incrociati eseguiti nei confronti dei suoi clienti.
Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, la quale ne accoglieva il ricorso, annullando l’atto impositivo, con sentenza poi confermata anche dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale osservava che l’Ufficio non aveva fornito alcun elemento idoneo per ritenere che le prestazioni indicate nelle fatture acquisite presso i clienti della ditta fossero “effettivamente avvenute, con conseguente produzione di reddito in favore del contribuente”.
Onere della prova e notizie acquisite presso terzi: il caso analizzato
Attraverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, che la Commissione Tributaria Regionale, in contrasto con la consolidata giurisprudenza di legittimità, aveva erroneamente escluso la valenza presuntiva dei dati raccolti dall’ufficio accertatore presso terzi e la loro idoneità a spostare sul contribuente l’onere di dimostrare l’infondatezza della pretesa tributaria.
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata. Evidenziano i giudici di legittimità che la Commissione Tributaria Regionale aveva (indebitamente) affermato che da parte dell’Agenzia delle Entrate non era stato“fornito alcun elemento idoneo per ritenere che le prestazioni indicate in detta documentazione fossero effettivamente avvenute”.
Così statuendo, il collegio d’appello aveva quindi addossato all’Amministrazione finanziaria l’onere di offrire idonei elementi di riscontro della veridicità dei dati contenuti nelle fatture acquisite presso clienti della ditta nel corso di controlli incrociati effettuati nei loro confronti; fatture di cui il contribuente aveva denunciato la falsità.
Premesso però che in sentenza non veniva affatto esclusa l’utilizzabilità di tali documenti, la Corte di Cassazione rileva che le argomentazioni sulle quali poggiava la pronuncia erano giuridicamente erronee, anche alla luce dell’orientamento di legittimità già formatosi in materia, da ritenere ormai consolidato.
Cosa afferma la Corte di Cassazione sul caso analizzato
È stato, infatti, statuito dalla Suprema Corte che, una volta acclarata l’esistenza di attività non dichiarate, anche mediante presunzioni semplici originate dagli accertamenti condotti presso terzi e dai dati e dalle notizie che l’Ufficio abbia appreso all’esito degli stessi, il meccanismo innescato dai controlli erariali genera gli effetti propri della prova per presunzioni della condotta evasiva, rispetto alla quale non solo non è all’opposto invocabile la regolarità formale della contabilità tenuta dal contribuente, ma neppure è sostenibile che l’Amministrazione debba assolvere un onere probatorio ulteriore, avendo essa adempiuto il proprio compito attraverso gli elementi indiziari posti a base dell’accertamento e spettando, invece, al contribuente, in conformità alle regole generali fissate dall’art. 2697 c.c., dimostrare fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria (cfr., Cass., n. 23780/2022, Cass., n. 12403/2021, Cass., n. 34081/2019, Cass., n. 18232/2016).
La Commissione Tributaria Regionale si era discostata da tali principi di diritto, e, a fronte di fatture acquisite dagli accertatori presso terzi clienti della ditta, documentanti operazioni commerciali non contabilizzate dalla contribuente, aveva erroneamente posto a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere di fornire ulteriori elementi probatori a sostegno della pretesa tributaria, non considerando che gli indizi da questa addotti a sostegno dell’esistenza di ricavi non dichiarati avevano determinato un’inversione dell’onere della prova a carico del medesimo contribuente.
Onere della prova e elementi acquisti tramite terzi: le conclusioni
Al di là dello specifico caso processuale, giova inoltre anche evidenziare quanto segue.
In tema di accertamento analitico-induttivo, a fronte dell’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati contenuti nelle scritture contabili, riscontrata attraverso il rinvenimento di documentazione extracontabile, l’Amministrazione finanziaria può utilizzare, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici, aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c., con la conseguenza che, in quel caso, l’onere della prova si sposta sul contribuente.
Sono pertanto a tal fine idonee anche le presunzioni semplici, desumibili da qualsiasi documentazione rinvenuta relativa ad informazioni sull’imprenditore, che rappresenti la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta (cfr., Cass. n. 20094/2014; Cass. n. 14150/2016; Cass. n. 12680/2018, n. 27622/2018).
Non solo gli elementi riscontrati presso terzi soggetti sono dunque potenzialmente idonei a sorreggere un accertamento, ma, addirittura, l’art. 8, comma 8, Dl. 2 marzo 2012, n. 16 (così come modificato dalla legge di conversione 26 aprile 2012, n. 2012), ha stabilito che le Agenzie fiscali e la Guardia di Finanza, nell’ambito dell’attività di pianificazione degli accertamenti, tengono conto anche delle segnalazioni non anonime di violazioni tributarie, laddove, in realtà anche una segnalazione anonima potrebbe essere in teoria spunto di pianificazione accertativa, anche se è chiaro che, al fine di rappresentare idoneo indizio comprovante l’evasione, dovrebbe trovare riscontro in altri mezzi probatori.
Del resto, ai sensi dell’art. 39, comma 2, del Dpr. n. 600/1973, l’Amministrazione finanziaria può effettuare rettifiche del reddito sulla base dei dati e delle notizie “comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’ufficio”, con facoltà anche di avvalersi di presunzioni non qualificate, ossia anche prive dei requisiti di “gravità”, “precisione” e “concordanza”.
Il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., può dunque legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea - in quanto, a sua volta adeguata - a fondare l’accertamento del fatto ignoto.
Certo, l’Amministrazione non potrà fondare un accertamento su qualunque elemento, anche privo di qualsivoglia valore indiziario, determinando perciò solo l’inversione dell’onere probatorio, ma potrà comunque procedere alla rettifica qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione risulti in modo certo e diretto da qualsiasi altro atto e documento in suo possesso.
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