Dallo stato dell'arte attuale sulle criptovalute alle possibili future evoluzioni della moneta digitale: un approfondimento sul tema, partendo dalla necessità di una regolamentazione.
Nell’ambito delle audizioni in sottocommissione fiscale del Parlamento europeo, una tassa europea sulle criptovalute è stata stimata sul miliardo di euro e a breve i controlli sulle monete virtuali saranno oggetto di una nuova direttiva Ocse.
Partendo da queste premesse, appare evidente come il tema della tassazione delle criptovalute e della evoluzione delle monete digitali in genere sia ormai sempre più pressante.
Fino ad oggi il mondo delle criptovalute è stato caratterizzato da una sorta di anarchia, o comunque, nella migliore delle ipotesi, da una assenza di regolamentazione che ne ha fatto la nuova frontiera economico/finanziaria (legale ed illegale).
Ora, però, la regolamentazione è una condizione indispensabile per la crescita e per la stessa sopravvivenza di questo mondo.
Tassazione delle criptovalute: necessaria la regolamentazione
Le criptovalute, come detto, sono attualmente in gran parte non regolamentate nell’UE.
La proposta di Regolamento della Commissione Europea è all’esame del Parlamento europeo.
Il World Economic Forum Global Future Council on Cryptocurrencies sta producendo un lavoro in questo campo.
Sia a livello dell’UE che a livello nazionale, i regolatori europei hanno espresso sostegno alla tecnologia blockchain e al suo potenziale per la trasformazione digitale dell’economia.
La disciplina di una materia così delicata, del resto, non dovrebbe andare per ordine sparso, necessitando senz’altro di un intervento in sede comunitaria o sovranazionale.
Se però guardiamo al lato fiscale, dal punto di vista prettamente nazionale, per quanto riguarda il trattamento tributario in Italia delle criptovalute, potremmo già giungere, a legislazione vigente, a delle conclusioni “interpretative”.
Nel caso degli exchanger, ai fini imposte dirette, la “commissione” di cambio dovrebbe essere infatti senz’altro soggetta a tassazione, secondo le ordinarie regole del reddito di impresa.
L’attività del miner (se ne esistessero in Italia), che sostanzialmente crea bitcoin “estraendolo” dalla blockchain, dovrebbe invece essere assimilabile ad attività di produzione di beni (immateriali).
E, laddove tali operazioni vengano poste in essere con i requisiti dell’abitualità e della professionalità, ne dovrebbe allora discendere l’applicazione delle regole fiscali proprie del reddito d’impresa.
Quanto invece agli utilizzatori finali, i guadagni di tipo speculativo (se speculazione ci fosse) dovrebbero essere dichiarati come redditi diversi.
Tali redditi dovrebbero essere dunque considerati quali redditi derivanti dall’impiego di capitale e, considerato che derivano da un evento incerto (anche considerata la variabilità delle quotazioni), la disciplina applicabile dovrebbe essere quella di cui all’art. 67 del Tuir, comma 1, lettera c-ter).
In tal caso allora si applicherebbe l’art. 68, commi 5 e 6 del Tuir e il reddito imponibile sarebbe pari alla differenza tra il costo di acquisto e il valore o corrispettivo di vendita.
Eventuali minusvalenze, se si applicasse tale disciplina, sarebbero deducibili dai redditi della stesa natura e il differenziale positivo delle plusvalenze e minusvalenze dovrebbe essere tassato in dichiarazione, con applicazione della ritenuta del 26 per cento.
È chiaro del resto che la richiesta chiarezza regolatoria non può comunque prescindere da un tema fondamentale, di competenza di altri organi (Banca d’Italia in primis), quale quello della esatta definizione giuridica dei bitcoin.
Senza sapere infatti esattamente cosa i bitcoin siano (valuta, mezzo di pagamento, bene immateriale, diritto di baratto, strumento finanziario, etc), sarà difficile capire con certezza quale sia il corretto trattamento tributario.
Sul piano fiscale, le istruzioni alla compilazione del quadro RW dello scorso anno prevedevano comunque, finalmente, anche una specifica indicazione in tema di valute virtuali.
Nella tabella dei codici delle attività detenute all’estero viene infatti specificato che occorre indicare – con il codice 14 – anche tale tipo di valute, con la specifica che il codice dello Stato estero può non essere indicato.
In sostanza, per la prima volta, viene esplicitato dalle istruzioni relative al quadro RW che, all’interno del medesimo quadro, vanno indicate anche le valute virtuali.
In base a quanto dispone l’articolo 4 del Dl 167/1990, le persone fisiche (oltre agli enti non commerciali e alle società semplici) devono infatti compilare il quadro RW del modello dichiarativo, relativo al monitoraggio fiscale, in caso di detenzione di “investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”.
La questione che si poneva, quindi, è ed è sempre stata se le valute virtuali si possano considerare “attività estere di natura finanziaria”, non rientrando certamente nel concetto di “investimenti all’estero”.
Vero è che le valute virtuali, per definizione, non sono riferibili ad un determinato territorio (almeno in termini fisici), né nazionale, né estero.
Il Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, con il quale sono stati approvati i modelli dichiarativi, “forza” dunque, probabilmente, il dato letterale della norma, ma lo applica nella sostanza.
Nell’ipotesi in cui, pertanto, una persona fisica detenga criptovalute in deposito presso un portafoglio virtuale, equiparabile ad un conto corrente online, appoggiato su piattaforme ubicate all’estero, e nel corso del periodo di imposta avvengano trasferimenti di criptovaluta da e verso paesi stranieri, sorge l’obbligo di compilazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi mod. UNICO, con l’obbligo di indicare il totale (iniziale e finale nel corso del periodo di imposta oggetto di dichiarazione) e la natura dei valori detenuti all’estero, sia ai fini del monitoraggio, sia ai fini impositivi per l’assoggettamento ad IVAFE.
E va inoltre considerato che le chiavi private possono anche essere gestite da terzi, laddove assume allora rilevanza anche la Direttiva antiriciclaggio, che individua questi soggetti nei “prestatori di servizi di portafogli digitali”.
Si sottolinea, infine, che, riguardo alla fattispecie del prelievo della valuta dai conti o depositi, l’art. 67 co. 1-ter del TUIR stabilisce che le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rinvenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che, nel periodo di imposta in cui esse sono realizzate attraverso il prelievo dal deposito o dal conto, la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso tutti gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro, per almeno 7 giorni lavorativi continui.
In presenza di quest’obbligo, devono dunque essere dichiarate tutte le operazioni effettuate nell’anno solare, anche se precedenti alla data di superamento della soglia.
In conclusione, al di là delle possibili soluzioni tecnico-giuridiche, in ambito nazionale o sovranazionale, fiscale o non, ciò che appare innegabile è che la diffusione delle monete elettroniche andrebbe in qualche modo governata, anche perché espone i suoi utenti a notevoli rischi (non ultimo, come visto, accertativi).
Tassazione delle criptovalute ed evoluzione della moneta digitale
In attesa, dunque, che la comunità internazionale e le istituzioni europ
ee adottino le opportune misure regolatorie del fenomeno delle “virtual currencies”, appare necessario che il legislatore nazionale adotti specifiche misure.
Entro dieci anni, infatti, le tecnologie che si basano sui principi della blockchain registreranno le transazioni finanziarie correlabili al 10 per cento del PIL mondiale.
Vero è che negli ultimi tempi le maggiori valute digitali hanno fatto registrare anche perdite generalizzate, con oscillazioni da ottovolante. E si è tornati a parlare di crisi delle criptovalute.
Ma è davvero così?
Eppure non è la prima volta che si assiste a repentine cadute (e successivi “rimbalzi”) di Bitcoin (e sorelle).
La domanda semmai è allora un’altra. Possono le criptovalute assurgere a ruolo di beni rifugio?
Ecco, in questo caso, probabilmente, bisogna tenere conto che le criptovalute nascono proprio come antitesi al rifugio/risparmio. Cioè come un sistema “anarchico” che rifugge alle regolamentazioni.
Eppure è vero che in un contesto geopolitico instabile come quello attuale, anche le criptovalute sono viste come beni sicuri, o comunque più sicuri rispetto a valute in corso di implosione.
Certo, parlare di minore volatilità nel caso di valute digitali è senz’altro azzardato, ma, almeno nell’immaginario collettivo, il web è più attraente di sistemi monetari legati a Stati in prefallimento (basti pensare anche al caso del Venezuela e dello Zimbabwe).
Una criptovaluta statale sarebbe comunque poi più stabile, anche se questo sarebbe un vero e proprio ossimoro, dato che il principio cardine alla base delle criptomonete è l’assenza di un’autorità emittente.
Immaginare però che alcuni Stati decidano che le criptovalute sono la nuova moneta, di cui si riservano il monopolio, potrebbe non essere “fantaeconomia”.
Magari dando vita ad una moneta elettronica sovranazionale di riferimento (come l’euro digitale, di cui anche la Banca centrale è tornata di recente a parlare), alla quale le criptomonete nazionali si riferiscano.
Le criptovalute sono dunque un mondo in evoluzione, a ritmi impensabili fino a solo qualche anno fa e forse talmente veloci da precorrere anche ogni previsione.
Anche la Cina, del resto, ha in previsione di lanciare una propria criptovaluta nazionale: il vicedirettore della Banca Centrale cinese ha affermato a tal proposito che, almeno inizialmente, lo yuan digitale sostituirà solamente l’aggregato monetario M0, cioè i soldi contanti in circolazione.
L’utilizzo della criptovaluta negli investimenti sarà vietato. L’introduzione della valuta digitale mira, in sostanza, a permettere alle autorità cinesi di ridurre in maniera considerevole la portata dell’economia sommersa, laddove comunque le transazioni non dovranno essere anonime.
Il Venezuela, dal canto suo, ha sostituito la propria valuta nazionale, il bolivar, con il nuovo “bolivar sovrano” (o bolivar soberano), collegato alla criptovaluta di Stato, denominata Petro, laddove, proprio per fare fronte all’inflazione incontrollata, si è puntato sullo strumento delle criptovalute, e, per risolverne le forti oscillazioni, non idonee ad assolvere a funzione di riserva stabile di valore, è stato deciso di garantire la nuova criptovaluta con le riserve petrolifere e auree del Paese.
E altri Paesi del centro e sud America stanno seguendo questa strada.
Certo, l’ottica delle cosiddette stablecoin, come detto, rappresenta una forzatura rispetto allo spirito “anarchico” che aveva contraddistinto la nascita delle prime criptovalute.
Ma, prima che questione di mercato, l’affermazione di una tale “rivoluzione” digitale sembra essere anche, ormai, una questione culturale.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: Tassazione delle criptovalute ed evoluzione della moneta digitale