Ente no profit, ente non commerciale, ente del terzo settore: sono tutti sinonimi secondo l'opinione comune, mentre i diversi termini racchiudono storia e caratteristiche peculiari che non possono essere sottovalutate. Esprimono profili diversi dal punto di vista civilistico, fiscale e giuridico
In diverse occasioni è capitato sentir parlare di ente no profit come sinonimo di ente non commerciale e veder passare il termine di “ente del terzo settore” come sostituto dei precedenti a seguito della riforma del CTS (codice del terzo settore).
Al fine di poter comprendere l’essenza della riforma è bene però sottolineare, come in altri approfondimenti, la differenza che esiste tra ente non commerciale ed ente del terzo settore, come spesso le due entità possano coincidere senza però che tale univocità sia imprescindibile e il ruolo che gioca l’equilibrio delle attività esercitate.
Facciamo un passo indietro sottolineando l’aspetto che abbiamo sempre sostenuto, cioè che gli enti possono continuare ad esistere anche senza adeguarsi alla riforma del terzo settore, mantenendo la qualifica di enti non commerciali, se ne posseggono chiaramente i requisiti e restando assoggettati a quanto previsto dal TUIR., la qualifica di ente del terzo settore si acquista solo se si prende la decisione di entrare a far parte del RUNTS e di entrare nel nuovo meccanismo messo in modo dal d.lgs 117/2017.
Ente non commerciale ed ETS: differenze e similitudini
La definizione di ente non commerciale non attende al profilo civilistico dello stesso ma è difatti una mera configurazione fiscale, e si trova all’art. 73, comma 1, lettera c), del D.P.R. 917/1986 il quale individua gli stessi come «“come gli enti pubblici e privati diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commercial”i».
La commercialità dell’ente rileva sotto il profilo fiscale e deve essere interrogata da un punto di vista oggettivo meramente afferente all’attività effettivamente svolta dall’ente, essenziale ai fini della realizzazione degli scopi per i quali è stato costituito.
L’art. 73 del T.U.I.R. riporta inoltre i parametri necessari ad identificare l’attività svolta dall’ente e verificarne così il possesso dei requisiti previsti per mantenere tale qualifica necessaria solo ai fini del particolare trattamento fiscale delineato negli articoli 143 e ss del testo unico delle imposte sui redditi.
Parlare di ente del terzo settore non attiene ad una mera configurazione fiscale ma delinea dei veri e propri profili civilistici, tracciando le basi per la formazioni di nuove configurazioni giuridiche ed organizzative alle quali saranno poi destinate misure fiscali agevolative pensate ad hoc dal legislatore.
Essere un ETS può assumere molteplici significati, tale nuovo universo racchiude infatti molti organismi differenti tra di loro.
Anche all’interno di una stessa categoria di enti è infatti possibile riscontrare un’eterogeneità creata dalla socio-diversità di coloro che sono entrati a farne parte, unico tratto distintivo in comune sarà infatti il format civilistico-fiscale ed organizzativo loro attribuito a seguito della riforma a seconda della categoria di ente a cui hanno scelto di aderire.
Ente del terzo settore: commerciale o non commerciale
Gli enti del terzo settore sono definiti dall’art. 4 del d.lgs 117/2017, “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o giù attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.
L’assenza di scopo di lucro non è però sinonimo di ente avente natura non commerciale.
Basti pensare all’impresa sociale, disciplinata dal d.lgs 112/2017 definita all’art. 2 comma 1 come ente che “esercita in via stabile e principale una o più attività d’impresa di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”. L’assenza di scopo di lucro della stessa si manifesta con la destinazione di eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.
Nonostante questi presupposti l’impresa sociale è un ente configurabile come commerciale per natura.
Si può quindi avere un ente commerciale che appartiene comunque al terzo settore.
Discorso diverso invece è da fare per l’equilibrio da mantenere relativamente all’attività esercitata.
A maggior ragione post riforma, esistono casi in cui è proprio permesso l’esercizio di attività di tipo commerciale senza che l’ente perda la qualifica di ente del terzo settore.
Un ente del terzo settore può esercitare attività di tipo commerciale e non perdere la qualifica civilistica mentre invece deve stare molto attento relativamente al rispetto di un altro limite, quello afferente all’esercizio dell’attività di interesse generale.
Attività di interesse generale: prevalenza e qualifica ETS
Un ente del terzo settore per poter mantenere tale qualifica e beneficiare di quanto previsto dal CTS deve esercitare “in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l’esercizio” di cui all’art. 5 del d.lgs 117/2017.
Oltre a dover esercitare in via esclusiva o prevalente una o più delle attività previste dall’art. 5 del d.lgs 117/2017, è necessario compierle secondo quanto previsto dal legislatore in base alla categoria di ente di riferimento.
La possibilità di esercitare in via “prevalente” le attività di interesse generale lascia spazio all’ente per esercitare un altro tipo di attività, quelle denominate diverse e disciplinate dall’art. 6 del d.lgs 117/2017 a patto che esso rispetti particolari limiti imposti dalla normativa.
Al fine di poter considerare le attività diverse come secondarie infatti è necessario che ricorra almeno una delle due condizioni di seguito elencate, entrambe relative ai ricavi dell’attività determinati in ciascun esercizio:
- non devono superare il 30 per cento delle entrate complessive dell’ETS;
- non devono superare il 66 per cento dei costi complessivi dell’ETS.
L’ente nel caso in cui non rispetti la prevalenza dell’attività esercitata come previsto dall’art. 5 del d.lgs perde la qualifica di ente del terzo settore, cosa che non accade se invece non rispetta l’equilibrio tra attività di natura commerciale o non commerciale.
Per questo è possibile avere un ente del terzo settore anche se esercita attività commerciale ma non è possibile averlo se non rispetta la prevalenza di esercizio di attività di interesse generale.
Articolo originale pubblicato su Informazione Fiscale qui: ETS ed ente non commerciale: sinonimi o organizzazioni di tipo diverso?