Quoziente familiare e superamento della posizione della Corte Costituzionale del 1976

Il dibattito sull'introduzione del quoziente familiare è tutt'altro che nuovo in Italia e sul tema della tassazione delle famiglie è intervenuta più volte anche la Corte Costituzionale: un'analisi

Quoziente familiare e superamento della posizione della Corte Costituzionale del 1976

Uno degli aspetti su cui il Governo ha sempre manifestato l’intenzione di intervenire è quello del quoziente familiare.

Tra i profili di possibile criticità che devono essere superati c’è però un ormai lontano indirizzo costituzionale che tale impostazione aveva “bocciato”.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 173 del 1976 aveva infatti dichiarato illegittima - per violazione dei principi di parità dei cittadini, parità giuridica e morale dei coniugi, capacità contributiva - la legge (del 1971), che aveva accolto il criterio della tassazione del cumulo dei redditi del marito e della moglie ai fini dell’imposta sui redditi delle persone fisiche.

La stessa Corte aveva peraltro, in quell’occasione, rivolto moniti al Legislatore perché intervenisse per risolvere il problema della tassazione della famiglia.

Quoziente familiare e posizione della Corte Costituzionale

Con la detta sentenza si rilevava infatti il rischio relativo alla tassazione della famiglia monoreddito, in cui “non è solo il marito a poterne disporre (del reddito) ma lo sono entrambi i coniugi” e si auspicava una più adeguata disciplina in materia, invitando, già all’epoca, il Legislatore ad attuare un sistema tributario “che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia”.

La sentenza del 1976, con cui era stato dichiarato incostituzionale il cumulo dei redditi perché incompatibile con il principio di uguaglianza, era comunque specchio di un tempo ormai “remoto” e di una società non più corrispondente a quella attuale.

I principi della parità dei cittadini (art. 3), della parità giuridica e morale dei coniugi (art. 29) e della capacità contributiva (art. 53), nel giudizio davanti alla Corte, erano stati peraltro legati come segue:

“Sia l’uomo che la donna come cittadini, come lavoratori autonomi e subordinati, come coniugi, come contribuenti si trovano nelle medesime condizioni per ciò che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, a tutti è riconosciuto il diritto al lavoro, il matrimonio è ordinato sulla uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, il lavoratore ha diritto alla giusta retribuzione, la donna come lavoratrice ha gli stessi diritti e… tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro personale capacità contributiva. E nelle normative e negli istituti afferenti a ciascuna delle ora dette materie trovano applicazione quelle disposizioni e quei principi (…)”.

In sostanza una concatenazione di diritti indiscutibili tra cui farvi rientrare anche il dovere fiscale, come una sorta di nuovo diritto della persona e con una forzatura anche letterale della Costituzione, laddove l’aggettivo “personale” riferito alla capacità contributiva nell’art. 53 Cost. non esiste.

La stessa Corte Costituzionale ammetteva poi che la convivenza influisce sulla capacità contributiva di ciascuno dei coniugi e sottolineava che:

“spetta, peraltro, allo stesso Legislatore di apprestare rimedio alle sperequazioni che da tale sistema, rigidamente applicato, potrebbero derivare in danno della famiglia nella quale uno solo dei coniugi possegga reddito tassabile, rispetto a quella in cui ambedue i coniugi posseggano reddito, pari nel complessivo ammontare a quello della famiglia monoreddito, ma soggetto a tassazione separata, con aliquote più lievi, per le due componenti. La innegabile esigenza di correggere tali effetti distorsivi, nella prospettiva di quel favor familiae di cui s’informa l’art. 31 della Costituzione, può, invero, venire appagata sia con oculata scelta di un sistema alternativo suscettibile di essere affiancato in via opzionale al sistema della tassazione separata, sia anche all’interno di quest’ultimo, ristrutturando gli oneri deducibili e le detrazioni soggettive dall’imposta, per meglio adeguarli all’esigenza medesima” (in senso analogo, cfr. Corte Cost., Sent. n. 266 del 1983 e sent. n. 85 del 1985; Ordinanza n. 251 del 1987; Ordinanza n. 19 del 1993; Sent. n. 126 del 1998).

La stessa Consulta, con la sentenza n. 76/1983, aveva del resto poi ancora rilevato come toccasse al Legislatore apprestare adeguati rimedi ai possibili effetti distorsivi del sistema della tassazione separata, operando le più convenienti scelte normative nell’ambito del suo potere discrezionale (cfr. anche sentenza n. 85/1985).

Anni dopo questo invito il Legislatore, con l’articolo 19 della legge 29 dicembre 1990, n. 408, delegò il Governo ad adottare, entro il 31 dicembre 1992 (la delega non venne però esercitata entro la scadenza dei termini), uno o più decreti legislativi concernenti la revisione del trattamento tributario dei redditi della famiglia secondo una lunga indicazione di principi e criteri direttivi, fra cui si prevedeva la “commisurazione dell’imposta alla capacità contributiva del nucleo familiare tenendo conto del numero delle persone che lo compongono e dei redditi da esse posseduti” e la determinazione dell’imposta mediante applicazione dell’aliquota media corrispondente al reddito complessivo diviso per il numero dei componenti del nucleo.

La legge 29 dicembre 1990, che con la citata sentenza del 1976 si era dovuta confrontare, era dunque già finalizzata ad adottare un sistema di tassazione del reddito familiare secondo un meccanismo analogo al quoziente familiare di cui oggi si discute.

Quoziente familiare, come potrebbe funzionare? La risposta dal passato

In particolare, i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto informare l’esercizio della delega erano, tra gli altri, i seguenti:

  • a) facoltà per i contribuenti di chiedere l’applicazione dell’imposta sul reddito sull’insieme dei redditi del nucleo familiare;
  • b) determinazione del nucleo familiare, comprendendovi i coniugi non legalmente ed effettivamente separati, i figli adottivi e gli affidati o gli affiliati, minori di età o permanentemente inabili al lavoro e quelli di età non superiore a 26 anni dediti agli studi o a tirocinio gratuito, nonché le persone indicate nell’articolo 433 del codice civile, purché conviventi e a condizione che non possedessero redditi propri di importo superiore all’importo della pensione sociale vigente alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi;
  • c) commisurazione dell’imposta alla capacità contributiva del nucleo familiare, tenendo conto del numero delle persone che lo compongono e dei redditi da esse posseduti;
  • d) determinazione dell’imposta mediante l’applicazione al reddito complessivo del nucleo familiare dell’aliquota media corrispondente al reddito stesso diviso per il numero di parti risultante dalla attribuzione ad un componente del nucleo familiare di un coefficiente pari ad uno e a ciascuno degli altri componenti di un coefficiente non superiore a 0,5, considerando anche i rapporti derivanti da convivenza di fatto da almeno tre anni, con la previsione di opportune cautele volte ad evitare abusi e simulazioni; tale limite sarebbe potuto essere inoltre superato qualora nella famiglia fossero presenti componenti con più di 65 anni, a ciascuno dei quali attribuire un ulteriore coefficiente.
  • e) l’applicazione del quoziente familiare non avrebbe comunque potuto dar luogo a un risparmio di imposta superiore alle 400.000 lire annue per ciascun componente della famiglia oltre il primo;
  • f) si avrebbe dovuto avere particolare riguardo alla capacità contributiva del nucleo familiare di cui facesse parte una persona affetta da menomazioni fisiche, psichiche o sensoriali, specialmente nei casi di non autosufficienza.

Principi, in sostanza, molto chiari ed analoghi a quelli che dovrebbero anche oggi permeare una eventuale introduzione del quoziente familiare.

Ancora, la Corte Costituzionale, anche dopo il “fallimento” della delega, è poi del resto tornata ad affermare (cfr., sent. n. 358/1995) che l’attuale sistema di detrazioni e deduzioni non è sufficiente a conferire alla famiglia la rilevanza che ad essa è dovuta, dovendo essere sostituito da un sistema come il quoziente o lo splitting familiare.

La stessa sentenza, ancor più chiaramente, rilevava poi che le famiglie monoreddito “sono tenute a corrispondere un’imposta sui redditi delle persone fisiche notevolmente superiore rispetto ad altri nuclei familiari dello stesso numero di componenti, ma con reddito percepito da più di uno dei suoi membri”.

L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale dimostra dunque che la concezione espressa nella sentenza del 1976 è ormai superata.

Quoziente familiare, perché non partire dall’ISEE?

L’attuale modello ISEE, del resto, potrebbe anche fungere, in una prima fase, da base di partenza per una riforma orientata al quoziente familiare, già considerando questo strumento il reddito complessivo del nucleo familiare, più il 20 per cento del patrimonio mobiliare e immobiliare, diviso per una scala di equivalenza, laddove il primo membro “pesa” 1, il secondo 0,57, il terzo (che corrisponde al primo figlio) 0,47, il quarto (che corrisponde al secondo figlio) 0,42, con poi maggiorazioni per il terzo figlio e per problemi di disabilità.

In una riforma complessiva della fiscalità della famiglia bisognerebbe inoltre fare rientrare, oltre al quoziente familiare, passando dalla tassazione su base individuale a quello della tassazione per parti, anche l’assegno unico universale.

Il rischio da alcuni paventato che, indebolendo l’imposizione progressiva, si concedano così benefici crescenti ai redditi più alti potrebbe peraltro essere eliminato, come avviene già in altri Paesi, introducendo un plafond, cioè un tetto massimo al beneficio ottenibile.

In conclusione, introdurre anche in Italia il quoziente familiare secondo il modello francese potrebbe senz’altro comportare per le famiglie un importante risparmio medio annuo di imposta; risparmio che andrebbe ad aumentare al crescere del reddito e del numero dei componenti delle famiglie.

E il costo di una tale operazione sarebbe peraltro almeno in parte compensato dall’incremento dei consumi familiari, con quindi conseguente maggior gettito fiscale generale.

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